Allora Agrippa disse a Festo: Quest'uomo avrebbe potuto essere messo in libertà, se non si fosse appellato a Cesare.

Allora Agrippa disse a Festo: Quest'uomo avrebbe potuto essere messo in libertà, se non si fosse appellato a Cesare. Ma quale scopo poteva avere l'apostolo nel fare questo appello, se non quello di impedire che fosse processato dove sapeva di non avere giustizia da aspettarsi, a meno che Festo non mostrasse a Gerusalemme un coraggio che Ponzio Pilato voleva per una causa migliore, e che il suo il predecessore Felix si era dimostrato proprio in questo caso sprovvisto di? Il re Agrippa doveva solo pronunciarsi a favore dell'immediata liberazione di quell'uomo innocente, e Festo avrebbe senza dubbio dato subito il mandato. Ma forse si ritenevano impossibilitati a intraprendere qualsiasi azione dopo che quell'appello aveva trasferito il caso a un tribunale superiore.

Osservazioni:

(1) Per non parlare di nessun discernimento spirituale, chi ha una buona percezione del funzionamento del sentimento umano in circostanze diverse - come si potrebbe supporre che agiscano rispettivamente Paolo, Festo e Agrippa in questa occasione - e di quella che sarebbe un'espressione naturale di questi, come uscirono in questa assemblea, in quanto distinti dall'invenzione o dall'abbellimento letterario, non possono non vedere in questo capitolo la storia disadorna, sebbene vigorosa e nobile; e che cosa se non uno spirito scettico, un tono morale basso e un'erudizione perversa, diretti all'istituzione di una teoria preconcetta, potrebbero trovarvi - come fanno i critici di Tubinga (Zeller, per esempio) - solo uno di una serie di discorsi non storici, redatta apologetica molto tempo dopo gli eventi, nell'interesse di un partito paolino, o più cattolico nella Chiesa, e con l'obiettivo di soppiantare le opinioni petrine o più ebraiche? Ci si vergognerebbe di dover fare riferimento a tale letteratura, se non fosse che l'erudizione e l'ingegno che mostra, dopo aver fatto molto male nella sua terra natale, hanno finalmente cominciato a fare una certa impressione anche nel nostro paese, e che la tendenza allo scetticismo che recentemente si è instaurata tra noi è alimentata da tali miserabili speculazioni.

Ma i suoi effetti sicuramente svaniranno, non tanto per la forza di qualsiasi risposta che potrà essergli data, quanto sotto il potere del nudo testo sui devoti e candidi studiosi di esso, mentre "uomini malvagi e seduttori peggioreranno e peggio, ingannare ed essere ingannati.'

(2) L'incarico del glorificato Redentore al Suo un tempo acerrimo nemico è espresso in modo così grandioso in questo discorso davanti al re Agrippa, che possiamo qui soffermarci su di esso per un momento. Si possono notare tre cose in esso.

Primo, la posizione che occupa Cristo. Come la commissione emana autorevolmente da Lui - "ti mando" - così tutti gli effetti che la commissione contempla, poiché potrebbero essere operati solo strumentalmente da qualsiasi creatura, devono essere effettuati, semmai, da Colui da cui deriva la commissione. E quali sono questi effetti? "Ti mando al popolo (eletto) e ai Gentili, per aprire i loro occhi, affinché possano passare dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio.

"Chiaramente, colui che manda gli uomini a fare tali cose deve o avere il potere e l'intenzione di farle lui stesso, attraverso i loro strumenti, o deve beffarli quando li manda in tal modo. Ma, inoltre, mentre è lui che, aprendo occhi ciechi, li fa passare dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, il loro stare davanti a Dio come Suo popolo perdonato e riconciliato, e la loro eredità finale tra i santificati, è rappresentato come dovuto unicamente alla loro fede in Lui.

Non fa differenza per queste conclusioni, se consideriamo le parole di questa commissione come letteralmente così indirizzate a lui in qualsiasi momento, o come il riassunto concentrato dell'apostolo; di tutto ciò che gli era stato espresso dal suo glorificato Signore in molte successive occasioni. In quest'ultimo punto di vista, che sembra quello corretto, è ancora più sorprendente, poiché sostiene ciò che possiamo chiamare la Teologia Paolina, rispetto alla posizione di Cristo nell'economia divina - che possiamo aspettarci di trovare, e che facciamo trovare, scorrendo tutte le sue epistole alle chiese.

In secondo luogo, la relazione reciproca dell'illuminazione spirituale, della conversione e della fede. Come il motivo per cui gli uomini si accontentano di rimanere nelle tenebre e in schiavitù ai nemici di Dio è che sono ciechi alla loro vera condizione, così, non appena i loro occhi sono divinamente aperti per vedere chiaramente cosa e dove sono, essi passare da queste tenebre scoperte alla "meravigliosa luce" della "gloria di Dio nel volto di Gesù Cristo", e, nello stesso tempo e nello stesso atto, dal dominio di Satana alla sottomissione a Dio.

Ma per quanto meravigliosa sia questa trasformazione della natura e lo scambio di servizi, non è questo che effettua la loro riconciliazione con Dio, e dà loro diritto all'ultima ammissione tra i santificati di sopra. È solo per fede nel Signore Gesù - "la fede che è in ME" - che gli uomini "ottengono il perdono dei peccati e l'eredità tra coloro che sono santificati". Per questo solo rettifica la loro posizione, e regola la loro relazione con Dio; dando loro diritto di accostarsi immediatamente a Lui come suoi figli perdonati e riconciliati, e diritto di ammissione a vederlo faccia a faccia nel regno preparato «per loro fin dalla fondazione del mondo».

Terzo, il potere sovrumano del ministero evangelico. Il fatto che possieda tale potere che apre gli occhi ciechi e induce così gli uomini a volgersi dalle tenebre alla luce, e dal potere di Satana a Dio, è la sua caratteristica distintiva come qui esposto. Ma poiché tale potere non risiede affatto negli ambasciatori incaricati di Cristo, ma interamente in Colui che li invia, così essi hanno qui subito i materiali della più profonda umiltà e del più alto incoraggiamento, nell'adempimento di tale incarico, sapendo che essi " possono fare ogni cosa", anche se solo "per mezzo di Cristo che li fortifica", e che dei loro convertiti possono dire: "In Cristo Gesù vi ​​ho generato per mezzo del Vangelo".

(3) Il punto di vista espresso da Festo sullo stato d'animo di Paolo ("Tu sei fuori di te") e l'altissima calma della risposta ("Non sono pazzo, nobilissimo Felice, ma pronunci parole di verità e sobrietà" ) ci ricordano le straordinarie parole dell'Apostolo ai Corinzi: "Sia che siamo fuori di noi, è per Dio; sia che siamo sobri, è per causa vostra: perché l'amore di Cristo ci costringe" ( 2 Corinzi 5:13 ).

Senza dubbio parlava in tono elevato; e quando giunse alle ardenti parole alle quali Festo lo interruppe, parve probabilmente portato al di là di sé stesso, mentre si dilungava sul vasto proposito di grazia che il suo Signore risorto gli aveva commissionato di compiere. A uno che non sapeva nulla di queste cose, e se ne fregava altrettanto poco, questo santo entusiasmo sembrerebbe le effusioni di uno non del tutto se stesso, di uno la cui testa era stata girata da troppo studio; ma la risposta, specialmente quando seguita da quell'appello al re che trasse da lui una testimonianza così notevole del potere con cui supplicò Cristo; e, soprattutto, quando questo fu seguito dal desiderio a Dio che lui e tutti i presenti fossero in tutto come lui con la nostra elettrizzante eccezione - le catene su quelle sue mani alzate - questa risposta, diciamo, così seguita, Festo, rivelava il vero, segreto dell'entusiasmo che l'aveva suggerito, e anzi non era esso stesso che una varia manifestazione di quello stesso entusiasmo.

«No, nobilissimo Festo, non sono fuori di me; ma l'amore di Cristo mi costringe: e quale meraviglia? Perché chi potrebbe subire un tale cambiamento, e ricevere un tale incarico, e per semplicemente adempierlo dovrebbe essere qui accusato di ostilità sia alla legge che alla religione, e raccontare i fatti sorprendenti di un tale caso con l'apatia di uno scettico? No: "Se sono fuori di me, è per Dio" - al cospetto del quale sarebbe meravigliato se non fossi ciò che ti sembro - "o se sono sobrio", pronunciando parole di verità e di sobrietà, "è per la tua causa" che mi ascoltano oggi, "se in qualche modo posso salvarne qualcuno.

«E non è ancora questo l'atteggiamento adatto a coloro che invocano Cristo, o difendendo la verità o pregando in vece di Cristo di riconciliarsi con Dio? E quelli che escono in questo atteggiamento, quando si elevano al di sopra del timore o favore degli uomini, e si rendono conto delle questioni invisibili ed eterne della loro supplica, possono giustificare il loro conto facendo sembrare agli indifferenti di essere fuori di sé; o se, per rimuovere questa impressione, "sono sobri" - presentando le terribili verità di cui si occupano alla luce di realtà sobrie ma irresistibili, non sarà che "per la loro causa".

(4) Nel complesso, considerando questa come l'ultima occasione pubblica in cui il grande apostolo doveva essere "portato davanti a re e governatori per amore di Gesù, in testimonianza a loro", non si può non rimanere colpiti dal carattere coronato di esso, e senti come bene, durante la sua ultima prigionia e nella prossima prospettiva di suggellare la sua testimonianza con il suo sangue, poteva dire riguardo a queste apparizioni pubbliche per il suo Signore, così come tutta la sua carriera dalla data della sua conversione, "Ho combattuto una buona battaglia" ( 2 Timoteo 4:7 ).

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