Commento biblico del sermone
1 Giovanni 5:6-11
La testimonianza di Cristo.
"Testimonianza!" La parola nella sua enfatica ricorrenza è tipica della situazione da cui scaturisce l'Epistola. I pericoli e le ansie speciali che affliggono ora la Chiesa sono cambiati rispetto a quelli che conosciamo nelle epistole precedenti di San Paolo. E può valere la pena ricordare a noi stessi il contrasto. Lì lo sforzo era stato quello di far uscire il messaggio stesso di Cristo nella sua forza distinta e originaria; districarlo dalla materia avvolgente che lo oscurava o lo distorceva; per liberarlo dalle indicazioni sbagliate a cui era soggetto, sia da pressioni ebraiche che da gentili.
Ma ormai da alcuni anni il corpo dei credenti possiede la sua fede; alcuni sono cresciuti fin dall'infanzia nel suo ambiente familiare. Stanno lì, in possesso compatto della loro posizione. Ma di fronte a loro trovano posto, in risoluta ostilità, un mondo, intellettuale e morale, che non cederà a un mondo feroce, duro e forte. E il compito assegnato loro inizia a sembrare duro e cupo.
Sarà un affare lungo. Non sono che un punto di luce nell'oscurità che mostra pochi segni di rottura. Questo "mondo" deve, infatti, essere convinto, condannato, convertito, ma non, a quanto pare, in un colpo solo, non in un rapido inizio di vittoria. Evidentemente ci attende una lunga, lenta e faticosa lotta, la cui fine nessun occhio può ancora riconoscere. E la fede che deve affrontare quest'opera deve guardare bene a se stessa.
Deve aver riconosciuto fino a che punto significa andare, su cosa può fare affidamento; deve essere completo, preparato ed esplicito. I cristiani non devono avere paura di guardare nella loro fede. La sua semplicità iniziale è inadeguata per il loro compito. Devono portarne alla luce le radici; devono sondarlo e annotarlo, ordinare e distinguere. Devono verificare la loro convinzione. E questa verifica devono vincere dal fatto stesso a cui la credenza li impegna. Il fatto è un fatto vivente, e può dare le sue risposte. Al contatto con essa, alla penetrazione in essa, il fatto testimonierà se stesso.
I. Come può essere? Come si può dire che un fatto porti con sé la propria evidenza? Ebbene, in linea di massima, tutti i fatti, di qualunque genere, a cui diamo credito interno lo fanno almeno, in una certa misura. Perché il merito che diamo loro deriva non dalla mera evidenza del loro verificarsi, ma dalla loro armoniosa corrispondenza con il mondo in cui giungono. Si adattano; gli appartengono; cadono con esso; prendono un posto appropriato nel corpo generale dei fatti.
È questo carattere luminoso e autoevidente che san Giovanni rivendicherebbe per il fatto cristiano. La sua testimonianza a se stessa va ricercata nella sua piena corrispondenza con la situazione spirituale in cui entra. L'onere della responsabilità per la natura della prova viene così ributtato su di noi. Funziona come un giudizio, rilevando dove ci troviamo e mettendo a nudo i segreti del cuore.
Il cristiano deve, se vuole essere sicuro di sé nella tremenda guerra con il mondo, rimuginare e meditare sul fatto divino che gli viene presentato, il fatto in cui aveva creduto, finché il fatto stesso diventasse sempre più luminoso con l'intensità e la realtà della luce che ha gettato sulle tremende questioni che giacciono sul destino dell'uomo qui e nell'aldilà. Man mano che rifletteva così, l'illuminazione sarebbe aumentata; e in questo accrescimento della potenza illuminante starebbe quella prova del fatto, quell'intelligente e convincente certezza, che la sua ansietà desiderava.
II. E c'era un'altra forma di questa testimonianza che aderiva al fatto la testimonianza, cioè quella che dava a Dio Padre. Il fatto cristiano non solo si armonizzava con la situazione umana che pretendeva di spiegare, ma portava con sé un improvviso senso di corrispondenza con il Dio in cui gli uomini avevano creduto. La fiducia di San Giovanni nel dare la sua testimonianza di ciò che aveva "visto, udito e maneggiato" si corona nella consapevolezza che, attraverso il potere di questa esperienza, si è ritrovato portato fuori da una giungla oscura di morte nel chiaro luce del giorno; vide ancora una volta il volto di Dio, immacolato e immacolato.
Questo fu ciò che fortificò e corroborò la sua adesione al fatto. La luce era stata manifestata, e con questo risultato: che il messaggio che ora doveva dichiarare ai suoi ascoltatori era proprio questo: "che Dio era davvero luce", e solo luce, nient'altro che luce; e che in Lui non c'era affatto oscurità.
III. C'è una terza forma di questa testimonianza della realtà del fatto. È ciò che si esprime nell'enigmatico riferimento ai tre testimoni sulla terra: lo Spirito, l'acqua e il sangue. Acqua e sangue sono testimoni reali e concreti di Colui che si è fatto carne. Qui sulla terra, in mezzo a noi, sono ancora maneggiati, riempiti, posseduti dallo Spirito, applicati dallo Spirito alla prova perpetua della purificazione e della redenzione che una volta per sempre furono manifestate in Gesù Cristo.
Eccoli ancora. E attraverso questa concordia combinata dell'interno con l'esterno, dell'essenza vivente con i fattori oggettivi, dello Spirito testimone con l'acqua e il sangue che testimoniano, è data decisamente la prova sia della presenza e della potenza della volontà operante di Dio, sia della validità della il fatto originario in cui quella volontà prese forma e venne tra noi. "Ci sono tre testimoni sulla terra, lo Spirito, l'acqua e il sangue: questi tre sono d'accordo in uno".
H. Scott Holland, Pleas and Claims for Christ, p. 67.
Riferimenti: 1 Giovanni 5:8 . Spurgeon, Sermoni, vol. xx., n. 1187; J. Keble, Sermoni dalla Pasqua all'Ascensione, p. 160; Ibid., Sermoni per la Quaresima e la Passione, p. 172. 1 Giovanni 5:9 ; 1 Giovanni 5:10 . Spurgeon, Sermoni, vol. xxi., n. 1213.