LA NEGAZIONE DEL SÉ

'Chi parla di se stesso cerca la propria gloria, ma chi cerca la sua gloria che lo ha mandato, è vero, e non c'è ingiustizia in lui.'

Giovanni 7:18

Non c'è caratteristica nella vita del nostro Salvatore, nessuna singola parola o atto di Lui più caratteristico della Divinità rivelata in Lui della volontà persistente di negare e cancellare Se stesso. Tra le innumerevoli forme sotto le quali l'amor proprio si gonfia nell'orgoglio e diventa la radice del peccato nell'uomo e della sofferenza nella società, ne sceglieremo, a titolo di illustrazione pratica, solo una i cui pericoli risiedono principalmente nel suo carattere sottile e plausibile. Cercheremo di tracciare come lo spirito di emulazione si sviluppi nell'amore di interferenza e di preminenza, contrapponendolo alla vera umiltà nel compiere l'opera di Dio.

I. A prima vista, infatti, « eccellere » sembrerebbe un dovere che dobbiamo tanto a noi stessi quanto a Dio : è la sorgente stessa del progresso, tanto nelle arti quanto nei costumi, come gli uomini si sforzano di realizzare in le loro vite o nel materiale esteriore tali barlumi quando raggiungono la perfezione; né il buon artigiano, come ci ha insegnato Platone, «cerca di andare oltre il suo simile». Ma quando, invece di dedicarci con un occhio solo al lavoro che ci è stato assegnato, cominciamo a gettare un altro sui nostri vicini, a misurarci con loro, cercando di superare, di eclissare, allora la lodevole ambizione di eccellere degenera nella volgare passione di emulazione e l'orgoglioso amore della superiorità.

E con ciò entra in uno spirito maligno dopo l'altro: lo spirito di competizione, che spinge i più deboli al muro; lo spirito di invidia e di scontento, che può amareggiare le più dolci benedizioni della vita; lo spirito di vanagloria, che si preoccupa solo del riconoscimento esteriore; lo spirito dell'ipocrisia, che nasconde dentro di sé il suo fardello purulento. Ma dove invece c'è lo spirito di Cristo, dove l'ostinazione si perde nel desiderio univoco di compiere l'opera e di proclamare il messaggio dall'alto, c'è davvero la libertà: nessuna rivalità, nessun confronto ansioso con altri uomini, nessuna dipendenza per la nostra felicità da ciò che gli altri possono pensare o dire, nessuna schiavitù ad alcuna volontà al di fuori della nostra, che è quella di fare la volontà di Dio. Un tale spirito di abnegazione è del tutto compatibile, e anzi conduce direttamente a ciò che è ben chiamato "proprio orgoglio".

II. Il "proprio orgoglio" può essere veramente e radicalmente distinto solo da questo, che è centrato, non in noi stessi o nelle nostre realizzazioni , ma nel lavoro a cui siamo chiamati, e si estende al massimo al riconoscimento grato che in esso abbiamo stato abilitato in qualche misura, per quanto umile, ad assistere. Qui, dunque, il proprio orgoglio e la vera umiltà si incontrano in uno. La vera umiltà, infatti, è ancora più simile a quella vile contraffazione che ostenta per sempre una pretesa inferiorità, perdendo tempo e fiato in ipocrisie reciprocamente ossequiose.

Al contrario, non avrà nulla a che fare con le valutazioni personali del carattere, con il confronto e la valutazione di un uomo con un altro. Nasce solo dal giusto apprezzamento della natura umana quando è vista alla luce della perfezione divina e della chiamata divina di cui è tutto indegno. Così e così solo impara a valorizzare i doni e gli sforzi degli altri uomini, portandoci a ritenere coloro che differiscono da noi più onorati, proprio perché sono ciò che si richiede per supplire alle nostre imperfezioni al fine di per realizzare lo scopo e l'opera comuni dell'umanità redenta.

III. Dove non esiste la vera umiltà dell'oblio di sé, avviene il risultato esattamente opposto . ‑ Attribuiamo un'importanza eccessiva ai doni particolari che possediamo noi stessi; immaginiamo che siano proprio ciò di cui c'è bisogno in questa particolare epoca, in quel particolare frangente. Pensiamo forse di essere segnati per risolvere qualche problema speciale nella religione, nella politica, nella società, o per soddisfare le esigenze del lavoro in qualche altro reparto della vigna del Signore; e invece di aspettare ancora Dio, facendoLo guida e meta, diventiamo impazienti, interferendo, e alla fine finiamo per cercare la nostra propria gloria.

—Rev. Il dottor offerente.

Illustrazione

'È un segno che un uomo è un vero servitore di Dio, e realmente incaricato dal nostro Padre nei cieli, che cerca sempre la gloria del suo Maestro più che la sua. Il principio qui esposto è molto valido. Con esso possiamo mettere alla prova le pretese di molti falsi maestri di religione e dimostrare che sono guide malsane. C'è una curiosa tendenza in ogni sistema di eresia, o religione malsana, a far sì che i suoi ministri magnifichino se stessi, la loro autorità, la loro importanza e il loro ufficio.

Può essere visto in misura notevole nel brahminismo. L'osservazione di Alford, tuttavia, è verissima, che nel senso più alto e più rigoroso, "l'ultima parte della frase è vera solo per il Santo stesso, e che a causa dell'infermità umana, la purezza del motivo non è una garanzia sicura per la correttezza di dottrina"; e perciò alla fine del versetto non è detto: "colui che cerca la gloria di Dio", ma "colui che cerca la sua gloria che lo ha mandato" — indicando specialmente Cristo stesso.'

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