Introduzione.
1. LA DATA DELL'EPISTOLA.
Sebbene l'Epistola agli Ebrei non sia stata accolta senza riserve nel canone sin dall'inizio, e sebbene la sua paternità sia ancora incerta, nessuno può ragionevolmente dubitare della sua origine antica nel periodo successivo dell'era apostolica. Le prove sono sia interne che esterne. Le frequenti allusioni in essa all'ebraismo, con il suo rituale, in quanto sistema tuttora esistente, sono tali da rendere altamente improbabile qualsiasi data successiva alla distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito, A.
D. 70. È vero che il mero uso dei verbi al presente con riferimento ai servizi del tempio non sarebbe di per sé conclusivo; poiché questo uso continuò dopo la distruzione del tempio, essendo stato trovato in Giuseppe Flavio, 'Ant.' 3:9, 10; in Barnab., 7, ecc.; in 'Epist. ad Diog.,' 3; nel Talmud; e nell'Epistola di Clemente Romano ai Corinzi (vedi la nota del Vescovo Lightfoot al cap. 41. di tale epistola).
Ma osserviamo, inoltre, il tono pervasivo di ammonimento ai lettori di non essere ricondotti nel giudaismo, come se fossero ancora circondati dalle loro vecchie associazioni, e la totale assenza di riferimenti a qualsiasi disgregazione dell'antico sistema politico, come potrebbe erano certamente attesi se l'evento avesse avuto luogo. Quindi possiamo tranquillamente prendere la data di cui sopra, il 70 d.C., come un terminus ad quem, essendo solo due anni dopo il martirio di S.
Paolo, e molti prima della morte di san Giovanni. Forte è anche la prova esterna di una datazione anticipata. Clemente Romano, del quale non può esservi ragionevole dubbio che fosse discepolo degli apostoli e che sovrintendesse alla Chiesa di Roma non molto tempo dopo che avevano sofferto san Pietro e san Paolo, e la cui prima lettera ai Corinzi è innegabilmente genuino, usa il linguaggio in quell'epistola che prova la sua conoscenza della Lettera agli Ebrei.
Delle sue citazioni, o riferimenti, si dirà di più sotto il titolo di "Canonicità". Quindi la Peshito, o Versione siriaca del Nuovo Testamento, che è universalmente assegnata alla più remota antichità cristiana, include questa Epistola. Inoltre, Clemente Alessandrino (che vi presiedeva la scuola catechetica alla fine del II secolo) non solo lo cita lui stesso, ma lo cita spesso come S.
Paolo, ma parla anche del suo stesso maestro e predecessore, Panteno, avendo espresso le sue opinioni al riguardo: "come diceva il beato presbitero", ecc. (Eusebio, 6:14, citando gli 'Ipotiposi' di Clemente). Della testimonianza dei Padri Alessandrini si dirà di più sotto il titolo di "Autore". Basta ora, per il nostro presente scopo, osservare che l'Epistola è così provata essere stata ben conosciuta e ricevuta nella Chiesa alessandrina al tempo di Panteno, che ci porta molto vicino all'età apostolica; e sebbene i dotti lì, come si vedrà, vennero in seguito a mettere in dubbio la diretta paternità di San Paolo, tuttavia la sua antichità non fu mai messa in dubbio.
Mentre le prove interne, come sopra notato, sembrano precludere qualsiasi data successiva al 70 d.C., così fa, d'altra parte, qualsiasi data molto anteriore. Ai lettori si parla infatti come di membri di una Chiesa antica: si ricordano "i tempi passati", quando erano stati dapprima "illuminati", e le persecuzioni subite in passato; era trascorso un tempo sufficiente perché mostrassero seri segni di esitazione dalla loro iniziale fermezza; ei loro "capi, che avevano parlato loro la Parola di Dio", erano già morti, essendo stati indicati in termini che suggeriscono l'idea del martirio ( Ebrei 13:7 ).
Se potessimo essere sicuri di un'allusione qui, tra gli altri, a Giacomo il Giusto (chiamato "Vescovo di Gerusalemme", e il capo riconosciuto dei cristiani ebrei), dovremmo avere un preciso terminus a quo nel 62 d.C., alla Pasqua di quell'anno, secondo Giuseppe Flavio ed Eusebio, Giacomo fu martirizzato. Questa allusione, tuttavia, non può essere più che una probabilità. Tutto ciò che possiamo affermare con sicurezza è che l'Epistola, dal suo contenuto, deve essere stata scritta un numero considerevole di anni dopo che la comunità destinataria aveva ricevuto la fede, e quindi, se durante la vita di san Paolo, non molto prima della sua chiusura. Un periodo compreso tra il 62 e il 70 d.C. si adatterebbe molto bene alle condizioni.
2. L'AUTORE DELL'EPISTOLA.
Si osservi, in primo luogo, che l'Epistola è essa stessa anonima. Lo scrittore non menziona mai il proprio nome né rivela chi è. Quindi le questioni di paternità e di canonicità possono, in questo caso, essere tenute distinte. Questo non potrebbe essere nel caso di nessuna delle indubbie Epistole di San Paolo, in tutte le quali dà il proprio nome e designazione, e spesso allude in dettaglio alle sue circostanze al momento della scrittura e ai suoi rapporti con le persone a cui si rivolge.
In tali casi la negazione della presunta paternità implicherebbe la negazione che lo scritto sia ciò che professa di essere, e quindi della sua pretesa di essere incluso nel canone come genuino e autorevole. Ma non è così nel caso in esame. Né la deferenza al giudizio o alle tradizioni consenzienti della Chiesa ci impone di concludere che san Paolo ne sia stato l'autore. Il titolo stesso, "La lettera dell'apostolo Paolo agli Ebrei", non è antico: il titolo precedente era semplicemente ΠροÌς ̔Εβραιìους.
Così in tutti i manoscritti più antichi, e così citati da Origene, citato da Eusebio ('Hist. Eccl.,' 6:25), e, sebbene la tradizione della paternità di San Paolo fosse indubbiamente molto antica, tuttavia non fu nei tempi primitivi, come nel nostro, considerato conclusivo da coloro che erano competenti a giudicare, compresi i Padri di altissima fama dal secondo secolo in poi.
La prima allusione conosciuta alla paternità dell'Epistola è quella di Clemente di Alessandria, già citato per averla spesso citata nelle sue opere esistenti, averne parlato lui stesso e registrato qualcosa che Panteno prima di lui aveva detto di essa. Siamo in debito con Eusebio per la conservazione di questo interessante riferimento alle 'Ipotipose' di Clemente: — "Negli 'Ipotipose', per parlare brevemente, egli ( i.
e. Clemente Alessandrino) ha dato un resoconto compresso di tutta la Scrittura testamentaria, non tralasciando neppure i libri contestati; Intendo la lettera di Giuda e il resto delle epistole cattoliche, e quella di Barnaba, e la cosiddetta Apocalisse di Pietro. E quanto all'Epistola agli Ebrei, dice che è di Paolo, ma che è stata scritta agli Ebrei in lingua ebraica, e che Luca l'ha tradotta con cura e l'ha pubblicata ai Greci; che di conseguenza si trova lo stesso colore, quanto allo stile, in questa Lettera e negli Atti; ma che non è preceduto da 'Paolo l'apostolo' a ragione; 'perché' (dice lui) 'mentre lo inviava agli ebrei, che avevano concepito un pregiudizio contro di lui e sospettavano di lui, molto saggiamente non li respinse all'inizio aggiungendovi il suo nome.
Poi prosegue dicendo: "Ma", come diceva prima il beato presbitero, "poiché il Signore fu mandato agli Ebrei, come l'Apostolo dell'Onnipotente, Paolo, per modestia, come inviato alle genti, non si iscrive apostolo degli Ebrei, sia per l'onore dovuto al Signore, sia per il fatto che è opera di sopraffazione che scrisse anche agli Ebrei, essendo araldo e apostolo delle genti"" ( Eusebio, "Hist. Eccl.," 6:14).
Si può concludere che "il beato presbitero" a cui si fa riferimento fosse Panteno, al cui insegnamento Clemente si riconobbe particolarmente debitore: "il quale anche nelle 'Ipotipose' che compose, fa menzione per nome di Panteno come suo maestro" (Eusebio, 'Hist. Eccl.,' 5:11; cfr. 6:13). Anche nei suoi Stromates (1. § 11) Clemente, parlando dei suoi vari maestri in vari luoghi, dice di aver trovato finalmente in Egitto il vero maestro che prima aveva cercato invano, intendendo senza dubbio questo stesso Panteno, che Eusebio, parlando del tempo di Commodo, cita come il principale insegnante di Alessandria ('Hist.
Eccl.,' 5:10). Anche Girolamo ('In Catal.,' 36) parla di Pantaenus così: "Pantaenus, stoicae sectae philosophus, juxta quandam veterem in Alexandria consuetudinem, ubi a Marco Evangelista semper ecclesiastici fuere doctores, tantae prudentiae et eruditionis tavinis,Scripturis in di saeculari literatura, fuit, ut in Indiam quoque... mitteretur." Sembrerebbe, quindi, che Clemente, venendo ad Alessandria, abbia trovato Panteno a capo della famosa scuola di catechesi, al quale, secondo Eusebio e altri, successe nel suo ufficio.
Il periodo di presidenza di Clemente essendo stato la circ. 190-203 dC, è quindi evidente che, certamente non molto tempo dopo la metà del II secolo, l'Epistola agli Ebrei fu accolta nella Chiesa di Alessandria come una di San Paolo; e naturalmente la presunzione è che fosse stato tramandato come tale da una data molto più antica (cfr. le parole di Origene, citate più avanti, a proposito di "gli antichi" che l'hanno così trasmesso).
Questa distinta tradizione antica è chiaramente di grande importanza nell'argomento sulla paternità.
Risulta, inoltre, dalla citazione di cui sopra che gli studiosi alessandrini avevano osservato alcune particolarità nell'Epistola, distinguendola dalle altre di S. Paolo. Tutto ciò che si dice che Panteno abbia osservato era il suo essere, a differenza del resto, anonimo; e questo aveva il suo modo di spiegarlo.
Dopo di lui Clemente suggerì un'ulteriore spiegazione, e fu anche colpito dal fatto che lo stile fosse diverso da San Paolo, e gli ricordasse piuttosto San Luca. Ha quindi sostenuto, avendo forse iniziato, l'idea che l'Epistola greca sia una traduzione di quell'evangelista da un originale ebraico. Non sembra dal modo in cui Eusebio lo cita, come sopra, che questa fosse più della sua opinione, o che avesse qualcosa al di là delle prove interne su cui basarsi, sebbene Delitzsch la pensi diversamente.
La sua opinione, in ogni caso, è insostenibile, dal momento che l'Epistola ha distinte prove interne di essere una composizione originale in greco. E così Origene, uomo ancora più abile e più distinto, che successe a Clemente come capo della scuola alessandrina, sembra aver visto chiaramente, essendo Eusebio di nuovo la nostra autorità. Dopo un resoconto del catalogo di Origene dei libri canonici, lo storico procede: "Oltre a queste cose, riguardo alla Lettera agli Ebrei, egli (Origene) nelle sue omelie su di essa espone quanto segue: "Che lo stile (χαρακτηÌρ τῆς λεìξεως) dell'Epistola intitolata agli Ebrei non ha la rudezza nel parlare (τοÌ ἐν λοìγῳ ἰδιωτικοìν) dell'apostolo, che si riconosceva rozzo nel parlare (ἰδιωìτην τῷ λοìγῳ: vedi 2 Corinzi 11:6), cioè nella sua dizione, ma che l'Epistola è più puramente greca nella composizione (συνθεìσει τῆς λεìξεως), riconoscerebbe chiunque sia competente a giudicare delle differenze di dizione.
Ancora, che i pensieri dell'Epistola sono meravigliosi, e non secondi agli scritti apostolici riconosciuti, anche questo, chiunque presti attenzione alla lettura degli scritti apostolici sarebbe d'accordo.' Poi, dopo altre cose, aggiunge ancora: "Ma io, per dichiarare la mia opinione, dovrei dire che i pensieri sono dell'apostolo, ma la dizione e la composizione quella di qualcuno che ha registrato a memoria l'insegnamento dell'apostolo, e, come era, interpretato [o 'ha scritto un commento su', σχολιογραφηìσαντος] ciò che era stato detto dal suo maestro.
Se dunque qualche Chiesa riceve questa Lettera come quella di Paolo, sia ben stimata, anche per questo [ cioè non perda per questo motivo il merito che le è dovuto come testimone della verità]; poiché non senza una buona ragione (οὐ γαÌρ εἰκῇ) gli uomini dell'antichità l'hanno tramandata come di Paolo. Ma quanto a chi ha scritto l'Epistola, la verità la sa Dio. Il racconto che ci è pervenuto è, da parte di alcuni, che Clemente, divenuto Vescovo dei Romani, scrisse l'Epistola; da parte di altri, che Luca, che scrisse il Vangelo e gli Atti, lo fece'» (Eusebio, 'Hist. Eccl.', 6:25).
Ora, osserviamo qui che Origene non contesta, come i suoi predecessori, l'origine essenzialmente paolina dell'Epistola. Di ciò egli è soddisfatto, sia per l'antica tradizione alla quale giustamente attribuisce grande importanza, sia per il fatto che le idee dell'Epistola sono così interamente degne del grande apostolo. Si sente solo convinto, in considerazione dell'idioma greco e dello stile generale, che Paolo non possa essere stato lo scrittore vero e proprio.
La sua teoria è compatibile con il fatto che l'Epistola sia stata scritta o durante la vita dell'apostolo e con la sua conoscenza e sanzione, o dopo la sua morte da un discepolo che aveva preso nota del suo insegnamento, o comunque lo aveva conservato nella sua mente. Inoltre, evidentemente non attribuisce alcun valore alle opinioni che erano diventate correnti nel suo tempo secondo cui una persona piuttosto che un'altra fosse stata l'effettivo scrittore.
Era un critico troppo solido per considerare (come sembra aver fatto Clemente) semplici coincidenze della fraseologia prove convincenti a favore di san Luca. Tutto ciò di cui può essere certo è che l'Epistola non è stata scritta da san Paolo stesso, anche se non ha dubbi sul fatto che sia paolina, cioè unvera incarnazione dell'insegnamento di San Paolo. Ora, l'opinione di Origene, così espressa, è di particolare valore; non solo per la prima età in cui ha vissuto, con tutti i fatti che allora potevano essere conosciuti davanti a lui, ma anche per la sua competenza a formare un buon giudizio su tale argomento; e il fatto di essere stato un pensatore originale e un po' libero aggiunge, piuttosto che sminuire, il valore del suo verdetto. Le sue parole ben ponderate esprimono, infatti, lo stato del caso così com'è fino ai giorni nostri, dopo che le indagini successive hanno gettato poca luce su di esso.
Dopo Origene, Dionigi di Alessandria, i vescovi che gli succedettero, e tutti gli scrittori ecclesiastici dell'Egitto, della Siria e dell'Oriente in genere, citano senza esitazione l'Epistola come quella di San Paolo. Anche Ario ei primi ariani lo accettarono; e se alcuni degli Ariani successivi lo respinsero come tale, sembra che fosse solo per motivi controversi. Vedi Epifanio, "Eredi", 69; e Teodoreto, nella prefazione al suo commento all'Epistola, il quale dice: "Non c'è da meravigliarsi che coloro che sono infettati dalla malattia di ariano si arrabbino contro gli scritti apostolici, separando l'Epistola agli Ebrei dal resto, e chiamandola spurio.
Anche Eusebio, esprimendo il giudizio unanime dell'Oriente, lo colloca (sebbene non senza allusione ai dubbi, da notare tra poco, nutriti dalla Chiesa di Roma) tra gli indiscutibili scritti paolini ('Hist. Eccl.,' 3: 3; 3,25). È consapevole, tuttavia, delle difficoltà legate alla supposizione che l'Epistola greca così com'è sia stata scritta da san Paolo, e dà la teoria della traduzione (che, come abbiamo visto, era sostenuta da Clemente di Alessandria) come quella attuale ai suoi tempi, o comunque come quella di cui egli stesso era entrato in possesso: «Poiché Paolo, avendo scritto agli Ebrei nella loro lingua nativa, alcuni dicono che Luca evangelista, e altri che questo stesso Clemente ( io.
e. di Roma), tradusse lo scritto." Aggiunge la propria opinione a favore che Clemente sia stato il traduttore, in base alla somiglianza, nella dizione e nel pensiero, tra la sua indubbia epistola ai Corinzi e la lettera agli Ebrei. così dice ha valore solo come testimonianza dell'accettazione dell'Epistola in tutto l'Oriente come essenzialmente paolina. sebbene lui stesso li registri, non sembra averli apprezzati) ovviamente li superano di molto.
In Occidente, tuttavia, per alcuni secoli non ci fu un'accettazione così generale dell'Epistola come quella paolina. Sebbene l'uso che ne fa Clemente, sopra menzionato, mostri che era certamente noto a Roma alla fine del I secolo, tuttavia è chiaro che i successivi Padri occidentali, fino al IV secolo, non lo riconobbero come avente l'autorità di San Paolo. Nel Frammento Muratoriano, composto probabilmente non molto tempo dopo A.
D. 170, sebbene non si possa concludere, essendo il documento così difettoso, che l'Epistola non fosse originariamente menzionata, tuttavia non può essere stata inclusa tra S. Paolo; poiché nel brano esistente che si riferisce a questi si legge: «Cure ipse beatus apostolus Paulus, sequens prodecessoris sui Johannis ordinem nonnisi nominatim septem ecclesiis scribat ordine tall; ad Corinthios prima, ad Ephesias secunda, ad Philippenses tertia, ad Colossenses quarta, ad Galatas quinta, ad Thessalonicenses sexta, ad Romanos septima.
.. Verum ad Philemonem unam, et ad Titum unam, et ad Timotheum duas pro affettiu et dilectione .... Fertur etiam ad Laodicenses [alia], alia ad Alexandrinos, Pauli nomine finctae ad haeresim Marcionis, et alia plura quae in catholicam ecclesiam recipi non potest." Quindi, se è stato menzionato affatto in qualche parte del Frammento ora mancante, non può essere stato classificato tra le vere o presunte Epistole di S.
Paolo. Inoltre, Fozio cita Ippolito che nega che l'Epistola sia di san Paolo; e ne dà un estratto dal triteista Stephanus (soprannominato ὁ Γοìβαρος), in cui si dice lo stesso anche di Ireneo. Si potrebbe supporre che Ireneo, dalla sua formazione originaria in Asia Minore, abbia tenuto fede alla tradizione e all'opinione orientale; ma non ne consegue che sarebbe così dopo il suo collegamento con la Chiesa occidentale in Gallia; ed è osservabile che nelle sue opere esistenti (con l'eccezione di "verbo virtutis suae" nel suo 'Haeres.
,' 2:30, 9) non sembra esserci alcuna evidente allusione all'Epistola, sebbene, d'altra parte, Eusebio ('Hist. Eccl.,' 5:26) dice che ne parlò. e lo citò in una delle sue opere ora perdute; il che prova ancora solo che ne era a conoscenza. La semplice evidenza negativa di un'opera non citata può, tuttavia, essere facilmente spinta troppo oltre e spesso potrebbe portare, se utilizzata, a conclusioni errate.
Quindi anche il silenzio di Novaziano nei suoi scritti esistenti non è di per sé conclusivo, sebbene l'Epistola contenga passaggi che potrebbero essere serviti ai suoi scopi controversi. Ma abbiamo, in questo caso, molte prove positive, oltre a quelle già addotte, dell'opinione generale della Chiesa occidentale. Eusebio ('Hist. Eccl.,' 6:20), parlando di un dialogo di Caio, "uomo molto eloquente", pronunciato a Roma, sotto Zefirino contro Proclo (un montanista), dice di questo Caio che "cita solo tredici lettere del santo apostolo, non classificando quella agli Ebrei con il resto, poiché ancora alcuni dei romani non consentono che sia opera dell'apostolo.
Girolamo ('De Vir Illustr.,' c. 56) conferma questa testimonianza e dà la data di Zefirino, sotto il quale scrisse Caio, cioè il regno di Caracalla. Allo stesso periodo appartiene la testimonianza di Tertulliano, che è singolare nell'assegnare distintamente l'Epistola ad un altro autore oltre a San Paolo, cioè Barnaba: "Extat enim et Barnabae titulus ad Hebraeos, a Deo saris aucctorati viri, ut quem Paulus juxta se constituerit in abstinentiae tenore [ 1 Corinzi 9:6 ] .
... Et utique receptior apud ecclesias epistola Barnabae illo apocrypho Pastore maechorum". , cos qui semel illuminati sunt," ecc. (Tertulliano, 'De Pudicit.,' c. 20.). Egli lo attribuisce così distintamente, non a Paolo, ma a Barnaba, e implica anche che, sebbene egli stesso lo abbia accettato come sufficientemente autorevole, non fu così accettato da tutte le Chiese: fu solo «più accolto» dell'apocrifo «Pastore», attribuito anche a Barnaba.
Cipriano parla anche solo delle epistole di san Paolo, "ad septem ecclesias"; Vittorino fa lo stesso; e, infine, Girolamo dice distintamente: "Guadagna Latinornm consuetudo non recipit inter scripturas canonicas". La sua non accettazione come canonica, che così adduce Girolamo, e che è altrimenti confermata, fu senza dubbio dovuta principalmente, se non interamente, al fatto che non gli fu riconosciuta l'autorità di S.
Paolo; era perché la sua paternità era stata messa in dubbio, come risulta dalle testimonianze sopra addotte, che non era incluso nel canone accettato. Ma prima della fine del IV secolo, durante l'ultima parte della quale Girolamo scrisse così, l'Epistola venne accettata come paolina sia in Occidente che in Oriente. Atanasio, Cirillo di Gerusalemme, Gregorio Nazianzeno, il canonico del Concilio di Laodicea (364), e l'ottantacinquesimo dei Canoni Apostolici, calcolano quattordici Epistole di S.
Paolo. Così anche il Concilio di Cartagine (419), di Ippona Regio (393), di Cartagine (397); Innocenzo I. nel suo 'Ep. ad Exsuperium» (405), e Gelasio (494). Anche Ambrogio, Rufino, Gaudenzio e Faustino, si riferiscono all'Epistola come a San Paolo. Da allora in poi l'Epistola mantenne il suo posto nel canone come uno di San Paolo senza controversie, fino a quando la questione fu nuovamente sollevata nel XVI secolo. Lo stesso Girolamo contribuì senza dubbio a questo risultato richiamando l'attenzione sulla tradizione e l'opinione dell'Oriente, ed esprimendo le proprie conclusioni.
Riassume così le opinioni che si erano tenute sull'argomento: «Epistola autem quae fertur ad Hebraeos non ejus creditur propter styli sermonisque dissonantiam, sed vel Barnabae juxta Tertullianum, vel Lucae evangelistae juxta quosdam, vel Clementis quem quem aipiuut sententias Pauli proprio ordinasse et ornasso sermone. Vel certe quia Paulus scribebat ad Hebraeos et, propter invidiam sui apud cos nominis, titulum in principio salutationis amputaverit.
Scripserat, ut Hebraeus Hebraice, id est suo eloquio dissertissime, ut ea quae eloquenter scripta fuerant in Hebraeo eloquentius verterentur in Graecam, et hanv causam esse quod a caeteris Pauli epistolis discrepare videatur" ('De Vir Illustr. 5). Evidentemente aveva davanti a sé in questo riassunto ciò che avevano detto Clemente Alessandrino e Origene, come altri; e c'è da osservare che alla fine dà, come da alcuni, un'opinione intermedia tra quella di Clemente, che prese l'epistola greca come una mera traduzione da S.
l'ebraico di Paolo, e quello di Origene, che sembra averlo considerato una composizione originale fondata solo su note o ricordi dell'insegnamento dell'apostolo. Perché l'opinione qui fornita è che una vera lettera ebraica di San Paolo fosse stata non semplicemente tradotta, ma riscritta in greco in uno stile più eloquente; e sembra che San Paolo avesse scritto il suo originale con l'intenzione che ciò fosse fatto da un'altra mano.
Così la forma e lo stile dell'Epistola si conciliano più pienamente di quanto non lo sia da Origene con la tradizione dell'autore paolino. Inoltre, Girolamo esprime così le proprie conclusioni riguardo alla pretesa di accettazione dell'Epistola in Occidente: "illud nostris dicendum est, hanc epistolam quae inscribitur ad Hebraeos non solum ab ecclesiis Orientis seal ab omnibus retro ecclesiasticis Graeci sermonis scriptoribus quasi Pauli Apostoli suscipi, licet plerique cam vel Barnabae vel Clementis arbitrentur, et nihil interesse cujus sit, quum ecclesiastici viri sit, et quotiaie ecclesiarum lectionum celebretur, Quod si eam Latinorum consuetudo non recipit inter scripturas canonicas.
nec Graecorum quidem ecclesiae Apocalypsim Johannis eadem libertate suscipiunt, et tamen nos utrumque suscipimus, nequaquam hujus temporis consuetudinem sed veterum scriptorum auctoritatem sequentes, qui plerumque utriusque abututturdum testimoniary ( solec utriusque abutunturdum raro) quasi canonicis et ecclcsiasticis". La deriva di ciò è che, nonostante l'uso latino, l'accettazione dell'Epistola da parte di tutto l'Oriente, e la sua citazione come canonica dai Padri greci, ne giustifichi la ricezione nel canone, e che dovrebbe essere così accolto.
Adduce come caso parallelo quello dell'Apocalisse, che era stata considerata in Oriente come la Lettera agli Ebrei in Occidente; ma entrambi erano stati ugualmente citati dagli scrittori antichi come canonici e autorevoli (non solo perché occasionalmente si riferiscono a scritti apocrifi o addirittura profani), e quindi sostiene che entrambi dovrebbero essere ugualmente ricevuti. Non esprime alcuna opinione sull'autore dell'Epistola, ritenendo la questione irrilevante, purché si tratti di qualcuno i cui scritti potrebbero rivendicare un posto nel sacro canone.
Ma la sua decisione distinta per la canonicità dell'Epistola priverebbe del suo interesse principale la questione relativamente poco importante della sua paternità, e così avvenne che la tradizione orientale fu in seguito generalmente accettata.
Quell'altro grande e influente teologo della stessa epoca, sant'Agostino, prese ed espresse una visione simile dell'Epistola, apparentemente non curandosi di mettere in dubbio la paternità paolina. In un passaggio, dopo aver posto una regola pagliaccio per guidare il lettore nella sua valutazione dei libri canonici, secondo cui quelli che sono ricevuti da tutte le Chiese cattoliche sono da preferire a quelli che alcuni non ricevono, e quello di quest'ultimo quelli quali "plures gravioresque ecclesiae" ricevono sono da classificare al di sopra del resto, procede a calcolare nel canone quattordici Epistole di S.
Paolo ("De Dottrina Christiana", 2:8). Altrove parla di essere particolarmente spinto dall'autorità delle Chiese orientali ("magisque me movet auctoritas ecclesiarum Orientalium") ad accettare questa Epistola, "quamquam nonnullis incerta sit" ('De Peccatorum Meritis et Remissione,' 1,27). Nel suo 'De Civitate Dei' (16.22) dice anche di esso, "qua teste usi sunt illustres catholicae regulae defensores"; e nelle sue opere lo cita spesso, sebbene generalmente eviti di menzionare San Paolo come scrittore.
L'Epistola essendo così giunta finalmente ad essere pienamente accolta nel canone occidentale insieme alle indubbie Epistole di San Paolo, fu poi, nelle epoche acritiche che seguirono, considerata senza dubbio come una delle sue. Ma con la rinascita della ricerca e del pensiero indipendente all'inizio del XVI secolo, i vecchi dubbi, come c'era da aspettarsi, sono rinati anche, essendo suggeriti dallo studio della letteratura patristica, nonché dall'osservazione dello stile dell'Epistola stessa. .
Un resoconto completo delle opinioni espresse dai vari importanti teologi allora e successivamente si troverà nei "Prolegomeni" di Alford all'Epistola. Nell'obbedienza romana, Ludovicus Vives, teologo spagnolo, e il cardinal Gaetano, compaiono tra i primi dubbiosi; e anche dopo che il Concilio di Trento aveva in una certa misura chiuso la questione richiedendo sotto anatema la fede nella paternità paolina, Bellarmino ed Estius non si sentivano preclusi ad assegnare solo la materia, e non la lingua, a S.
Paolo. Erasmo fu deciso contro la paternità di San Paolo, e diede le sue ragioni a lungo, fondate sia sull'antica autorità che su prove interne. Come san Girolamo dell'antichità, considerava la questione di poco conto e, dice, non avrebbe scritto tanto su di essa se non per il grido sollevato contro ogni dubbio della opinione ricevuta, come se il dubbio fosse un'eresia. «Se», dice, «la Chiesa lo definisce certamente di Paolo, io volentieri rendo prigioniero il mio intelletto all'obbedienza della fede; ma, per quanto riguarda il mio giudizio, non mi sembra suo.
I riformatori più decisi, Lutero, Calvino, Melantone, i centuriatori di Magdeburgo, e dapprima Beza, erano della stessa opinione; Lutero essendo memorabile, non solo per la sua decisa opinione, ma anche per aver suggerito un nuovo nome, quello di Apollo, come molto probabilmente, a suo giudizio, di essere stato lo scrittore siero.In seguito, tra i protestanti così come i cattolici, c'era una tendenza crescente ad accettare l'antica visione tradizionale, e anche a farne un punto - in particolare tra i nostri propri teologi, di solito inclini a essere conservatori e a rifuggire da inquietanti visioni accettate.
In tempi relativamente recenti la questione è stata nuovamente aperta tra i teologi tedeschi, la grande maggioranza dei quali (Bengel, Stowe e Hofmann sono eccezioni) sono stati, e sono tuttora, decisamente contrari all'essere stato lo scrittore San Paolo. Tra di noi, tuttavia, la sua paternità diretta ha mai avuto, e ha tuttora, molti difensori, il più recente dei quali è stato il commentatore dell'Epistola nel "Commento dell'oratore" pubblicato di recente.
Per riassumere i diversi punti di vista che sono stati e possono essere sostenuti, con un breve avviso delle ragioni principali a favore o contro ciascuno, possiamo affermarli così:
1. Che San Paolo scrisse l'Epistola in greco così com'è. Questa visione si basa in realtà sul fondamento unico dell'antica tradizione in Oriente. Ma a cosa ammonta questo? Tutto ciò che sappiamo con precisione è che ad Alessandria, nel secondo secolo, l'Epistola, essendo essa stessa anonima, era stata tramandata, ed era generalmente accolta, come quella di San Paolo; ma che i dotti anche allora non erano per questo convinti che l'avesse effettivamente scritto: erano nettamente dell'opinione che, in ogni caso, il greco non fosse suo; e il più grande di loro, Origene, non pensava di essere stato in alcun modo lo scrittore vero e proprio.
Perché dovremmo dare più importanza alla tradizione di quelle persone competenti che erano in una posizione migliore per giudicarne il valore? Può essere facilmente spiegata senza difficoltà. Ricevuta presto, a sua volta senza nome, con altri che portano il nome dell'apostolo, che rappresentano ed emanano dalla stessa scuola di pensiero e di insegnamento - in realtà scritta, se non da san Paolo, almeno da uno dei suoi discepoli o associati - l'Epistola potrebbe facilmente vengono generalmente letti e accettati, in assenza di qualsiasi critica discriminatoria, come, come del resto, S.
Di Paul. Per più di questo non vale dunque la tradizione — ma per questo vale, confermando l'evidenza interna, come percepiva Origene — che l'Epistola fosse in origine paolina, ma non necessariamente di San Paolo.
L'evidenza interna di qualche altro scrittore effettivo diverso da San Paolo non si basa esclusivamente o principalmente sul numero di parole ed espressioni nell'Epistola che non si trovano negli scritti riconosciuti di San Paolo. Differenze di questo tipo possono essere esagerate come prova di una paternità diversa; ci sono un numero considerevole di υπαξ λεγοìμενα in alcune indubbie Epistole di san Paolo, e specialmente nelle Pastorali, che sono le ultime.
Lo stesso scrittore può variare notevolmente le sue parole e frasi in opere diverse e in tempi diversi, secondo il suo corso di pensiero, l'influenza e le associazioni circostanti, i libri letti di recente o gli argomenti trattati. Quindi gli elenchi che sono stati fatti di parole o frasi comuni a questa Epistola e solo a San Luca, o solo a questa Epistola e a San Paolo, o che si trovano in questa Epistola e nei discorsi di San Paolo come registrati da San Paolo.
Luca, non sono, qualunque sia il loro valore, importanti per l'argomento principale, il cui punto essenziale è che l'intero stile greco dell'Epistola è diverso da quello degli scritti riconosciuti di San Paolo - più classico nel suo idioma, così come più finito e retorico; e anche che la disposizione studiata dei pensieri e degli argomenti, il piano sistematico dell'intera opera, è diverso dal modo di scrivere così caratteristico del grande apostolo.
Si può infatti dire che, quando S. Paolo si adoperò per l'accurata composizione di un'opera che, sebbene in forma epistolare, era intesa come un duraturo trattato su un grande argomento, sarebbe probabile che si discostasse dal suo solito stile epistolare, e che un uomo della sua cultura e capacità versatili sarebbe, anche umanamente parlando, essere in grado di adottare sia la lingua che la disposizione adatta al suo scopo.
Questa considerazione avrebbe avuto un peso decisivo nel modo di spiegare se ci fosse stata qualche prova esterna veramente valida del suo essere stato l'effettivo scrittore. In assenza di ciò, l'evidenza interna conserva la sua forza, per essere sentita dagli studenti riconoscenti piuttosto che spiegata. Se qualcuno al giorno d'oggi ne è insensibile, può in ogni caso ricordare l'impressione che ha fatto sui grandi studiosi e teologi dell'antichità, come anche dei tempi più recenti. Nel complesso, la conclusione giusta sembra essere che l'opinione di San Paolo che ha scritto l'Epistola così com'è in greco è decisamente improbabile, sebbene ancora non insostenibile.
2. Che l'Epistola greca è una traduzione da un originale ebraico di san Paolo.
Questa visione, come è stato già suggerito, è certamente insostenibile. Infatti non solo nell'Epistola ci sono frasi essenzialmente greche, che non avrebbero potuto essere semplici equivalenti di quelle ebraiche, ma il tutto ha l'inconfondibile suono, convincente per gli studiosi, di una composizione originale - quella di uno che aveva entrambi pensava e si esprimeva in lingua greca. Inoltre nelle citazioni dell'Antico Testamento si segue quasi uniformemente la Settanta, e ciò nei casi in cui si discosta dal testo ebraico; e talvolta tali variazioni sono seguite in modo tale che l'argomento stesso dipende da esse. Tale uso della Settanta sembra del tutto incompatibile con l'idea che l'Epistola sia stata scritta originariamente in ebraico.
3. Che S. Paolo fornisse le idee dell'Epistola, che un'altra persona, con la sua conoscenza e approvazione, ritrae nella loro forma attuale.
Questa è una visione pienamente sostenibile, essendo virtualmente quella espressa, come si è visto, da Girolamo. Non è una valida obiezione ad esso che le indubbie Epistole di san Paolo non siano ugualmente colorate dai modi di pensiero della filosofia giudaica alessandrina, di cui Filone è il notevole esponente. Perché a volte sono così colorati, anche se non nella stessa misura (cfr. per es . Galati 4:22 , ecc.
; Colossesi 1:15 , ecc.). E, inoltre, qualsiasi colore più forte di questo tipo che possa essere percepibile nell'Epistola potrebbe essere dovuto in parte allo stesso scrittore che esegue a suo modo i suggerimenti di San Paolo.
Questa opinione è coerente con la supposizione che l'Epistola sia stata inviata a destinazione dallo stesso apostolo, avallata da lui, e riconosciuta fin dall'inizio come avente la sua autorità; e così la tradizione orientale sarebbe pienamente spiegata e giustificata. Se è così, è anche sicuramente possibile (sebbene l'idea non sembri essere raccomandata ai commentatori) che i versetti conclusivi, da Ebrei 13:18 fino alla fine, in cui la prima persona è usata per la prima volta, e che ci ricordano particolarmente S.
Paul, sono stati dettati da lui stesso a suo nome, la "grazia" finale essendo, come in altri calchi, il suo autografo autenticante. In questo caso l'espressione in v. 22, "Vi ho scritto in poche parole", può riferirsi solo a ciò che era stato così aggiunto da lui stesso.
4. Che l'Epistola sia stata scritta, indipendentemente da S. Paolo, da qualche collaboratore che conosceva il suo insegnamento, anti ha dato la sua propria espressione.
Questa è l'opinione di Origene, ed è anche sostenibile. Tuttavia, non rende così pienamente conto come quest'ultimo dato per la tradizione dell'Epistola che è di San Paolo. Potrebbe, se così fosse, essere stato composto o durante la vita dell'apostolo o poco dopo la sua morte; ma in quest'ultimo caso molto brevemente, se la conclusione a cui si è giunti sotto "Data dell'Epistola" è corretta.
Quanto a chi potrebbe essere il vero scrittore, se non fosse St.
Paul, quattro sono stati particolarmente suggeriti, vale a dire. Luca, Clemente Romano, Barnaba e Apollo. Non sembra che nessuno dei loro nomi sia stato tramandato dalla tradizione, o addirittura più che congetture basate sulla verosimiglianza, sebbene tutti, tranne Apollo, abbiano avuto, come abbiamo visto, una menzione molto precoce.
(1) LUCA . Sembra che sia stato pensato da Clemente Alessandrino e altri, a causa del greco più puro dell'Epistola che assomiglia al suo, e che contiene parole e frasi che sono peculiari altrove del suo Vangelo e degli Atti degli Apostoli; e anche, possiamo supporre, a causa della sua stretta associazione con san Paolo come suo compagno, e la tradizione del suo Vangelo essendo stata scritta sotto la direzione di san Paolo. Questi sono buoni motivi per la congettura, ma comunque, per quanto ne sappiamo, si trattava solo di congetture.
(2) CLEMENTE DI ROMA . Egli, come abbiamo visto, è stato pensato nei primi tempi, essendo nominato da Origene come uno degli scrittori allora reputati, così come San Luca. Se a quel tempo c'era una buona ragione per credere che l'Epistola fosse stata inviata da Roma, il nome di Clemente poteva naturalmente suggerire di essere quello di colui che era stato associato all'apostolo durante la sua ultima residenza lì, e che era sovrano del Romano Chiesa subito o subito dopo il suo martirio.
Ancor più se fosse lo stesso Clemente di cui parla san Paolo ( Filippesi 4:3 ). Inoltre, la presenza nell'indubbia lettera di Clemente ai Corinzi di idee e linguaggio tratti dalla Lettera agli Ebrei sembra aver confermato la supposizione. Quest'ultima circostanza indusse Eusebio (un essere originario ebraico [presumibilmente) a ritenerlo più probabile di S.
Luke sarebbe stato il traduttore. "Alcuni dicono che Luca evangelista, e altri che questo stesso Clemente, tradusse lo scritto; il che può essere piuttosto vero, dall'epistola di Clemente e che agli Ebrei conservando lo stesso stile di dizione, e dai pensieri nelle due composizioni non essendo molto distanti" ('Hist. Eccl.,' 3:36). Così anche Eutelio, pretendendo di dare la veduta favorita: "Poiché (l'Epistola) essendo stata scritta agli Ebrei nella loro lingua si dice che sia stata poi tradotta, secondo alcuni da Luca, ma secondo la maggioranza da Clemente; poiché conserva il suo stile" ( Ebrei 2 .
). Ma essendo abbandonata la teoria dell'Epistola greca come mera traduzione, lo stile di Clemente non lo suggerisce certo come autore dell'Epistola agli Ebrei. Tutto ciò che appare è che lo conosceva, lo citò e ne introdusse alcuni pensieri e linguaggio; ma la sua stessa scrittura non mostra nulla di quella presa potente, del ragionamento serrato, dell'arrangiamento sistematico e dell'eloquenza dell'espressione, che contraddistinguono l'Epistola.
Inoltre, se fosse stato lo scrittore, ci si poteva aspettare che qualche tradizione in tal senso si attardasse nella Chiesa Romana. Ma quella Chiesa sembra non aver saputo quasi nulla dell'Epistola nell'era dopo di lui, e, come abbiamo visto, ha esitato a lungo anche solo a riceverla.
(3) BARNABA . Come levita, e quindi probabilmente esperto nel rituale ebraico; come socio originario di S. Paolo, e con lui fin dall'inizio contrario agli esclusivi giudaisti; come "un uomo buono, pieno di Spirito Santo e di fede", e con un efficace potere di esortazione (At 6:23, 24); — per quanto ne sappiamo, potrebbe essere stato una persona adatta e capace da ispirare per la scrittura di un'Epistola come questa.
Igor fa la rottura una volta tra lui e San Paolo ( Atti degli Apostoli 15 ), o la sua temporanea vacillazione ad Antiochia ( Galati 2:13 ), precludono che sia diventato di nuovo l'associato del grande apostolo e l'esponente del suo insegnamento. Tuttavia, non abbiamo alcuna conoscenza di questo, né dello stile e delle capacità naturali di San Barnaba come scrittore, nessuna delle sue autentiche espressioni, scritte o pronunciate, è registrata.
Quindi l'unico vero fondamento per la supposizione di Barnaba è l'affermazione di Tertulliano, che è certamente notevole come fatta positivamente e non solo come una congettura. Avrebbe più peso di quello che ha, se sapessimo che aveva un vero motivo per sostenerlo, tranne la sua opinione o quella di altri ai suoi tempi, o se gli scrittori dopo di lui sembravano dargli importanza.
(4) APOLLOS : suggerito per primo da Lutero, e poi ripreso con notevole fiducia da molti. Questa è certamente un'ipotesi molto allettante; l'obiezione principale, e questa molto seria, è che nessuno degli antichi sembra aver pensato a lui. Apollo è descritto ( Atti degli Apostoli 18:24 ) come "un ebreo, un alessandrino di razza, un uomo eloquente [λοìγιος, che può significare 'eloquente' o 'dotto' - entrambi i significati si adattano allo scrittore dell'Epistola], e potente in le Scritture", e uno che "convinse potentemente i Giudei.
.. mostrando dalle Scritture che Gesù era il Cristo." Ogni parola qui è applicabile a un uomo come sembra essere stato lo scrittore. Inoltre, la relazione di Apollo e il suo insegnamento con San Paolo e il suo insegnamento, come alluso a dallo stesso san Paolo, corrisponde alla relazione di questa epistola con quelle indubbie di san Paolo: dai primi tre capitoli della prima lettera ai Corinzi sembra che la festa di Corinto che si chiamava di Apollo deprezzasse S.
la predicazione di Paolo rispetto alla sua, troppo semplice e rozza, e carente della "sapienza di questo mondo"; eppure è evidente da quanto dice san Paolo che l'insegnamento di Apollo, benché diverso nella forma, era essenzialmente lo stesso del suo: "Io ho piantato; Apollo ha irrigato". Ciò che così si dice della predicazione di Apollo in relazione alla predicazione di san Paolo è proprio ciò che si potrebbe dire dell'epistola agli Ebrei in relazione alle epistole che sappiamo essere state scritte da san Paolo.
Paolo. Tali sono le ragioni molto plausibili per assegnare l'Epistola ad Apollo. Ma, d'altra parte, il fatto che nessuno degli antichi, che si può supporre abbia saputo delle probabilità più di noi, sembra anche averlo nominato, rimane una seria obiezione alla supposizione.
3. LA CANONICITÀ DELL'EPISTOLA.
La sua pretesa di essere inclusa nel canone come ispirata e autorevole è, come è stato già osservato, indipendente dalla sua paternità. Basta che sia stato scritto da uno dei dotati, durante il periodo dell'attività speciale dello Spirito ispiratore; altrimenti sarebbero stati non canonici gli Atti degli Apostoli ei Vangeli di San Marco e San Luca, nessuno di questi rivendicava la paternità apostolica.
Ora, che la sua data fosse nell'età apostolica, quando lo Spirito ispiratore era in piena attività, è stato mostrato sopra. Abbiamo quindi solo bisogno di essere ulteriormente soddisfatti della sua precoce accettazione come canonica, e del suo non avere in sé alcuna prova interna di essere altrimenti. Quanto all'accoglienza anticipata, come si è visto, non vi è alcun dubbio per quanto riguarda tutto l'Oriente: solo la lentezza dell'Occidente nel riceverla senza riserve va spiegata. A questo punto osserviamo -
1. Che il primo Padre Romano, S. Clemente, certamente ne era a conoscenza, e lo citava allo stesso modo degli altri libri inclusi nel canone. È vero, le sue citazioni o riferimenti sono anonimi; ma lo sono anche in altri casi; e così sono in genere quelli dei Padri apostolici. Non era il loro modo di citare esplicitamente ed esattamente, ma piuttosto di intrecciare un linguaggio che era diventato corrente nella Chiesa come autorevole nella trama dei propri scritti.
E così Clemente usa il linguaggio di questa Epistola allo stesso modo di quello delle indubbie Epistole di San Paolo e di altre Scritture del Nuovo Testamento. Non ne segue quindi che il canone del Nuovo Testamento fosse allora fissato definitivamente; ma ne consegue che almeno molti dei documenti ora inclusi nel canone erano già ben noti e considerati autorevoli, e che l'Epistola agli Ebrei era tra questi.
A questa testimonianza di Clemente si può aggiungere quella di Giustino Martire alla metà del II secolo, il quale, pur essendo originario della Palestina, andò a risiedere a Roma, vi scrisse probabilmente, e vi soffrì certamente. Nella sua "Apologia" egli chiama quattro volte Cristo "il Figlio e l'Apostolo di Dio" (c. 14, 82 e 83). Ora, trovandosi il titolo Apostolo applicato a Cristo solo nella lettera agli Ebrei ( Ebrei 3:1 ), mentre quello di Figlio lo pervade, sembra probabile che lo stia citando: e, identificando Cristo con l'Angelo che parlò a Mosè parla dei due titoli, Angelo e Apostolo, come egualmente sanciti dall'autorità divina.
"E la Parola di Dio è suo Figlio, come abbiamo detto prima. Egli è anche chiamato l'Angelo e l'Apostolo (che è inviato)." Ancora: "Ora queste parole sono state pronunciate per mostrare che il Figlio di Dio e apostolo è Gesù Cristo, che prima era il Verbo, e talvolta appariva sotto forma di fuoco", ecc. Ancora: "I Giudei, dunque, che sempre pensava che fosse il Padre di tutte le cose che parlava a Mosè, mentre colui che gli parlava era il Figlio di Dio, che è chiamato anche l' Angelo e l' Apostolo, sono giustamente rimproverati", ecc.
Tale linguaggio offre in ogni caso la presunzione che Giustino Martire considerasse l'Epistola agli Ebrei alla pari con le Scritture dell'Antico Testamento. Altri apparenti riferimenti all'Epistola di Giustino Martire si trovano in 'Dial. ad Tryph.,' cap. 13 (cfr Ebrei 4:13 , ecc.), e cap. 34 ( cfr Ebrei 8, ecc.).
Essendo tale evidenza (in particolare e positivamente quella di Clemente) di un riconoscimento dell'Epistola a Roma nel II secolo, il dubbio che prevalse in seguito è notevole e richiede una spiegazione. Può darsi che, sebbene Clemente lo conoscesse (essendo stato forse a conoscenza della sua composizione originale), non ne fosse stata conservata alcuna copia nella Chiesa romana, né alcuna tradizione distinta al riguardo, forse perché, essendo indirizzata a Ebrei (presumibilmente in Oriente), non si sentiva che riguardava i cristiani romani.
Di conseguenza, quando in seguito giunse a Roma dall'Oriente come uno di San Paolo, la sua anonimità e la sua non somiglianza con gli scritti noti dell'apostolo potevano naturalmente indurre il sospetto che non fosse ciò che si diceva fosse; e tale sospetto sarebbe stato confermato quando si fosse saputo che anche in Oriente la sua paternità era messa in dubbio. Gli occidentali, non avendo, come avevano gli orientali, alcuna tradizione propria a suo favore, non potevano esitare irragionevolmente su tali basi a riceverla nel loro canone. Per essere ha osservato - e questa è una considerazione importante - che -
2. Apparentemente solo perché la sua paternità è stata messa in dubbio, è stata messa in dubbio anche la sua pretesa di canonicità in prima istanza. E poi, col passare del tempo, la riluttanza così sorta sembra essere stata rafforzata da interpretazioni eretiche di alcuni passaggi in essa contenuti. La frase, τῷ ποιηìσαντι αὐτοÌν, in Ebrei 3:2 era stata presa in un senso favorevole all'arianesimo; ed Ebrei 6:4 , ecc.
, era stato utilizzato a sostegno del Novatianesimo. "Et in ea quia rhetorice scripsit, sermone plausibili inde non putant esse ejusdem apostoli; et quia et factum Christum dicit in ea ( Ebrei 3:2 ) inde non legitur; de paenitentia autem propter Novatianos aeque" (Philastrius, 'De Haeres. '89). Anche Ambrogio, nel suo "De Paenitentia", difende Ebrei 6:4 , ecc., dall'errata applicazione novaziana di esso.
Essendo così spiegata la lunga esitazione della Chiesa occidentale, la pretesa dell'Epistola alla piena canonicità non è realmente influenzata da essa; tanto più che questa pretesa venne alla fine ad essere pienamente riconosciuta sia in Occidente che in Oriente, nonostante i pregiudizi precedenti.
Quanto all'evidenza interna dell'Epistola stessa, essa non solo non è contraria, ma fortemente favorevole alla sua pretesa di canonicità. La netta distinzione tra gli scritti del Nuovo Testamento ei pochi giunti fino a noi dall'età sub-apostolica è stata spesso osservata e commentata.
La differenza consiste, non solo nel tono di autorità che pervade i primi, ma anche nella loro intera carnagione di composizioni di ordine superiore. Ci sentiamo, leggendoli, come se camminassimo in un'atmosfera più pura e celeste, propria dell'età apostolica. Senza tentare di definire ulteriormente questa differenza, che nessuno può non riconoscere, possiamo dire, senza esitazione, che la Lettera agli Ebrei si colloca a questo riguardo con gli altri scritti del canone neotestamentario.
Questo sentiva Origene quando parlava del pensiero dell'Epistola come "meraviglioso, e non secondo agli scritti apostolici riconosciuti". La sua peculiare ispirazione è inoltre tanto più evidente dall'esistenza di altri scritti di carattere alquanto simile, non molto distanti da esso nel tempo, con i quali possiamo confrontarlo. Infatti essa è, tra le Epistole, peculiarmente tinta con il modo di pensare della filosofia religiosa della scuola alessandrina, e può quindi essere messa in contrasto con altri scritti, ebrei o cristiani, appartenenti a quella scuola.
Con loro che pretendono di scoprire negli atti e nel rituale dell'Antico Testamento un significato al di là della lettera, e di trovare nel giudaismo il germe e la profezia di una religione per tutta l'umanità, evita tutte le interpretazioni inverosimili e fantasiose come si trovano altrove e, pur adottando molte delle idee della teosofia alessandrina, le rende sottomesse solo alla delucidazione dello stesso vangelo essenziale predicato, sebbene in varie forme di espressione, in tutto il canone del Nuovo Testamento.
Quanto facilmente la teosofia, se adottata dai cristiani, possa portare a perversioni del vangelo è evidente dalle eresie gnostiche che ne nacquero così presto. Ma in questa Lettera non si trova l'ombra di una tendenza a tale perversione. Abbiamo anche nella cosiddetta Lettera di Barnaba - un documento di data molto antica, sebbene di autore sconosciuto - un esemplare del trattamento del simbolismo dell'Antico Testamento anche da uno scrittore ortodosso senza la guida dell'ispirazione nell'era successiva.
Anche in essa la storia e il rito antichi sono interpretati misticamente alla maniera della scuola alessandrina; ma, mentre nell'Epistola canonica l'Antico Testamento è trattato in uno spirito ampio e intelligente, e per quanto riguarda la sua linea essenziale e il suo significato, negli altri passaggi particolari sono presi arbitrariamente, e spesso da essi si ricavano significati fantasiosi che non vogliono sopportare legittimamente.
4. A CHI E DA DOVE È STATA INVIATA L'EPISTOLA.
Tutto ciò di cui possiamo essere sicuri è che fu originariamente inviato a cristiani di razza ebraica, residenti in una località definita. Quest'ultima conclusione segue flora il riferimento all'esperienza passata delle persone indirizzate ( Ebrei 6:10 , ecc.; 10:32), e ai loro capi defunti ( Ebrei 13:7 ) e dall'intenzione espressa dello scrittore di visitarli ( Ebrei 13:19 , Ebrei 13:23 ).
Non era, quindi, un'epistola enciclica a tutte le Chiese ebraiche, sebbene potesse essere destinata a essere diffusa in generale, in modo da essere utile a tutti. Ma per quale Chiesa o gruppo di Chiese fosse stato pensato per la prima volta si può solo ipotizzare. La designazione Ebrei (̔Εβραῖοι) è usata nel Nuovo Testamento per indicare coloro che aderivano alla lingua ebraica nel culto pubblico e ai costumi e tradizioni ebraici nazionali, in opposizione agli ebrei ellenizzanti , chiamati ̔Ελληνισταί ( Atti degli Apostoli 6:1 6,1 ; cfr.
Atti degli Apostoli 9:29 ; Atti degli Apostoli 11:20 ); ma anche, nel suo senso più generale e proprio, per indicare tutta la razza ebraica ( 2 Corinzi 11:22 ; Filippesi 3:5 ). Quindi non si può concludere dal titolo, ΠροÌς ̔Εβραιìους, che si rivolgessero agli ebrei convertiti in Palestina piuttosto che altrove.
Né, d'altra parte, è il fatto che l'Epistola sia stata scritta in greco, e dei LXX . essendo sempre citato, un argomento contro questa supposizione. Perché a quel tempo in Palestina si parlava sia il greco che l'aramaico, e fin dall'inizio fu la lingua della letteratura cristiana. È notevole a questo proposito che Giustino Martire, benché nato a Flavia Neapolis (l'antica Sicliem ) in Palestina, probabilmente alla fine del I secolo, non mostri alcun segno di conoscere la lingua volgare del suo paese, e anche nel sostenere con l'ebreo Trifone si riferisce solo ai LXX .
Crisostomo e i Padri greci generalmente suppongono che ci si rivolga alle Chiese di Palestina, e questa sembra ancora essere l'opinione prevalente, essendo quella che più naturalmente si suggerisce, e almeno altrettanto probabile quanto qualsiasi altra. Alford, infatti, argomenta a lungo contro di essa, ea favore che l'Epistola sia stata indirizzata a Roma; ma il suo ragionamento non è affatto convincente.
Né possiamo determinare con certezza la località da cui è stata inviata l'Epistola. L'espressione "Essi d'Italia (οἱ ἀποÌ τῆς Ιταλιìας) ti salutano" ( Ebrei 13:24 ), non risolve la questione se lo scrittore fosse o meno in Italia quando scrisse. Può significare persone venute dall'Italia o semplicemente italiani. A favore di quest'ultimo significato, cfr.
Atti degli Apostoli 10:23 , τῶν ἀποÌ Ιοìππης: 12:1 τῶν ἀποÌ τῆς ἐκκλησιìας: 17:13, οἱ ἀποÌ τῆς Θεσσαλονιìκης: 21:27, οἱ ἀποÌ τῆς Ασιìας Ιουδαῖοι. Con questi esempi davanti a noi (essendo tutti da S. Luca, la cui lingua somiglia così costantemente a quella dell'Epistola), possiamo naturalmente prendere la frase per significare gli Ebrei, oi Cristiani in genere, che erano d'Italia; e se è così, supporre che lo scrittore sia stato lui stesso in Italia, forse a Roma, quando ha inviato così i saluti da loro.
bugia non avrebbe potuto, infatti, usare un'espressione più appropriata, se questa fosse la facilità. Questa espressione, quindi, sembra offrire una probabilità, anche se non una certezza, che fosse così. La familiarità del Clemente romano con l'Epistola, sebbene nessuna copia di essa sembri conservata nella Chiesa romana, può essere ulteriormente spiegata.
V. LO SCOPO E OGGETTO DEL DEL EPISTOLA . Non è, nell'intenzione originale, un trattato espositivo quanto una lettera esortativa, sebbene una parte così ampia di essa sia dedicata all'esposizione. Fornisce infatti, per noi e per tutti i tempi, un inestimabile trattato sulla Legge in relazione a Cristo; ma il suo scopo principale era originariamente esortativo, le esposizioni in tutto portavano alle hortations, che entrano, man mano che l'Epistola procede, con forza crescente.
Possiamo comprendere meglio questo suo scopo immediato, se ricordiamo il rapporto originario della Chiesa con l'ebraismo e i cambiamenti in quel rapporto che ne erano gradualmente seguiti.
I primi cristiani a Gerusalemme si consideravano ancora appartenenti alla comunità religiosa di Israele e, con gli apostoli, frequentavano il tempio ogni giorno ( Atti degli Apostoli 2:46 ). Furono anche lenti ad elevarsi al di sopra dell'idea che il Vangelo fosse destinato solo alla casa d'Israele: "Quelli che furono dispersi a causa della persecuzione che sorse intorno a Stefano" per la maggior parte "non predicarono la Parola a nessuno, ma solo ai Giudei " ( Atti degli Apostoli 11:19 ).
Ai Samaritani era stato effettivamente predicato ( Atti degli Apostoli 8 ), ma il parlare ai Greci ad Antiochia di "alcuni che erano uomini di Cipro e di Cirene" ( Atti degli Apostoli 11:20 ) è menzionato come qualcosa di nuovo e insolito; anche Pietro avrebbe esitato a ricevere Cornelio nella Chiesa senza la speciale illuminazione di quella memorabile visione ( Atti degli Apostoli 10 .
). La sua accoglienza, sancita da segni dall'alto, e approvata a lungo da "quelli dei circoncisi" a Gerusalemme ( Atti degli Apostoli 11:18 ), fu un evento importante; da allora in poi fu stabilito il principio che i Gentili erano ammissibili allo stesso modo degli Ebrei ai privilegi del nuovo patto; e così nessuna offesa fu presa a Gerusalemme quando, specialmente attraverso la predicazione di Paolo e Barnaba, moltissimi entrarono direttamente dal paganesimo nella Chiesa.
Ma restava ancora una domanda sui termini di ammissione. Il severo partito ebraico di Gerusalemme insisteva perché fossero circoncisi e osservassero la Legge di Mosè; li avrebbero membri della Chiesa ebraica come anche della Chiesa cristiana, alla maniera dei proseliti della porta. Il Concilio tenuto a Gerusalemme sotto la presidenza di S. Giacomo, con la partecipazione di Paolo e Barnaba come fautori della libertà, e nello stesso senso indirizzato da S.
Pietro, decise che nessun tale onere doveva essere imposto ai gentili convertiti; solo poche restrizioni legali sono per il momento ingiunte, apparentemente per evitare illeciti. Questo è stato un secondo importante passo avanti. Ma non ha chiuso la polemica. Il partito dei giudaisti, supplicando, sembrerebbe, per quanto ingiustificatamente, l'appoggio di san Giacomo (vedi Galati 2:12 ), mantenne ancora la propria posizione e si sforzò ovunque di contrastare e disprezzare san Giacomo .
Paolo. La loro influenza era così grande, e così forte il sentimento nei circoli ebraici contro l'associazione con i convertiti non circoncisi, che persino Pietro e Barnaba furono indotti a temporeggiare ( Galati 2:11 ). Paolo, tuttavia, rimase fermo nell'affermare e nell'agire in base al principio che il cristianesimo era diventato indipendente dall'ebraismo, che la giustificazione era mediante la fede in Cristo e non attraverso le opere della Legge, e che ammettere qualsiasi compromesso sarebbe stato predicare un altro vangelo .
Fu attraverso di lui, umanamente parlando, che alla fine trionfò la vera concezione di ciò che il vangelo significava, e che la Chiesa emerse da quelle lotte un tempo aspre, non una setta dell'ebraismo, ma cattolica per tutta l'umanità. Tuttavia, anche san Paolo fu molto tenero verso i coscienziosi pregiudizi ebraici; tutto ciò che poteva fare per conciliare senza il sacrificio di principio lo fece: per i Giudei divenne come un Giudeo, per guadagnare i Giudei ( 1 Corinzi 9:20 ); egli «prese e circoncise» Timoteo (cosa che poté fare senza incoerenza nel caso di una la cui madre fosse ebrea) «a causa dei giudei che erano in quelle zone» ( Atti degli Apostoli 16:3 ); egli stesso celebrò una cerimonia a Gerusalemme in ossequio ai molti credenti che vi erano zelanti per la Legge (Atti degli Apostoli 21:20 ); era disposto che i cristiani ebrei agissero secondo le proprie convinzioni purché lasciassero liberi gli altri; e verso coloro che lo facevano, pur considerandoli fratelli deboli, raccomandava ardentemente tolleranza e tenerezza ( Romani 14 .; 1 Corinzi 10:23 , ecc.). E così facendo fu saggio oltre che caritatevole.
Perché possiamo ben capire quanto sarebbe stato difficile per gli ebrei rinunciare ai loro pregiudizi ereditari profondamente radicati, e come non sarebbe stato desiderabile sottoporli a uno shock così grande come sarebbe stato causato dall'esigerli tutti in una volta a fare così.
Ma quando fu scritta l'Epistola agli Ebrei, era giunto il momento per una separazione completa e definitiva dall'ordine antico. Perché ora il giudizio predetto era imminente su Gerusalemme, il tempio stava per essere distrutto per sempre, l'intero sistema sacrificale ad esso connesso sarebbe cessato e la nazione sarebbe stata dispersa nel mondo senza una casa in Palestina. Il tempo dell'autunno era ora per i seguaci di Cristo per percepire pienamente che dall'antica dispensazione, mai più che provvisoria, la gloria era passata; uscire completamente dalla città un tempo santa ma ora condannata; per non appoggiarsi più al tessuto traballante del tempio, per timore che la loro stessa fede venga infranta nella sua caduta.
E sembra che a quel tempo ci fosse una particolare necessità che la nota di avvertimento fosse forte e travolgente. Infatti, dai passaggi dell'Epistola risulta che alcuni, almeno, dei cristiani ebrei avevano mostrato segni di regressione piuttosto che di avanzamento; non solo non erano riusciti a fare i progressi che avrebbero dovuto fare nell'apprezzamento del vero significato del vangelo, ma avevano anche rischiato di ricadere da esso alla loro vecchia posizione.
Non è difficile capire come questo possa essere. Poiché i principi di cui San Paolo era stato il grande avvocato prevalevano sempre più e poiché la Chiesa sembrava allontanarsi sempre più dalla nazionalità israelita, coloro che si aggrappano ancora affettuosamente alle vecchie associazioni potrebbero facilmente allarmarsi che la corrente portarli non sapevano dove. Sarebbe quindi probabile che in alcuni ambienti si innescasse una reazione, non senza il rischio, come si accenna possibile, di un'intera ricaduta dal cristianesimo.
Allora, mentre ondeggiavano in tal modo le continue persecuzioni a cui erano soggetti i cristiani, e la crescente ossessione in cui erano tenuti dai loro connazionali, e l'apparentemente lungo ritardo della venuta di Cristo che un tempo avevano creduto vicina, aumenterebbe il dubbio e la debolezza di cuore, e farebbe venir meno la stessa fede in Cristo di alcuni. Non risulta dall'Epistola che questo stato d'animo fosse generale tra i cristiani ebrei — di tanto in tanto accennati con delicatezza, e poi subito ripudiati con speranza — ma evidentemente prevalse presso alcuni.
Per un ultimo serio avvertimento a costoro, e per l'incoraggiamento e la conferma nella fede degli altri, l'Epistola fu scritta in primo luogo; ed è mirabilmente adattato al suo scopo. Infatti il suo scopo principale è quello di mostrare, dalle stesse Scritture dell'Antico Testamento, che la dispensazione mosaica era fin dal primo momento preparatoria e profetica di una più alta futura che doveva interamente sostituirla, e che Cristo era venuto come l'unico vero Sommo Sacerdote per tutta l'umanità, il vero compimento di ogni antico rituale e profezia, la soddisfazione di tutti i bisogni umani, rinunciare a chi sarebbe rinunciare alla salvezza.
È evidente dalla recensione di cui sopra come tutta un'Epistola con una tale deriva, e scritta con tale scopo, rifletta la mente e lo spirito di San Paolo, qualunque cosa si possa dire del linguaggio e del trattamento dell'argomento trattato. Esprime essenzialmente la visione del rapporto del vangelo con la Legge, e dell'ufficio e dell'opera di Cristo, di cui egli era sempre stato l'illustre paladino; e i suoi avvertimenti ed esortazioni sono tali che egli probabilmente desidererebbe ardentemente rivolgere ai suoi compatrioti, per i quali si interessava così profondamente ( cfr.
Romani 10:1 , ecc.), nelle particolari circostanze del tempo. E così la conclusione, anche per altri motivi probabile, che l'Epistola sia stata comunque scritta da uno che, direttamente o no istruito allo scopo, aveva assorbito lo spirito del suo insegnamento, è fortemente confermata. Né questa conclusione è in contraddizione con il fatto di essersi sentito peculiarmente l'apostolo delle genti, e di essere stato prima ansioso di non invadere la provincia degli apostoli della circoncisione.
Poiché i capi originali degli Ebrei a cui si rivolgeva non erano più con loro per esortarli e guidarli (vedi Ebrei 13:7 ), e le circostanze peculiari del tempo spiegherebbero e giustificherebbero un appello eccezionale. E infine possiamo osservare che il tipo di scuse nel capitolo conclusivo per aver rivolto "la parola di esortazione" ai lettori, e il timore implicito che potesse non essere preso bene da tutti, supportano l'idea che la fonte dell'Epistola abbia stato come si suppone.
La resa del testo dell'Epistola data in primo luogo nella successiva Esposizione è, di regola, quella della Versione Autorizzata, restando riservate le altre traduzioni per l'avviso nei commenti. Questa regola non è stata però seguita in modo uniforme nei casi in cui una modifica sia apparsa necessaria per far emergere il vero senso di un passaggio.