XXIX.

Questo è un pezzo di musica da tempesta che la poesia di nessun paese o epoca ha superato, così vividamente, o piuttosto udibilmente, è la tempesta - e una tempesta orientale - che ci viene presentata. Per l'ebreo una tempesta, terribile e magnifica insieme, era la diretta manifestazione della grandezza di Dio, e qui il poeta dà la più viva espressione a quel sentimento rappresentando tutti i fenomeni come il risultato immediato dell'espressione divina - conseguente, se non prodotto dal tuono, dalla voce divina.

La forma stessa — nella monotonia delle sue brevi, incisive, rigorosamente parallele frasi — è stata giustamente intesa come un'eco di successivi tuoni, sempre uguali e sempre terribili. Alcuni commentatori hanno suggerito che questo inno sia stato composto da David per essere cantato durante un temporale. Ma non vuole una congettura così inetta per discernere l'idoneità del salmo a prendere il suo posto in un servizio religioso.

Il poeta stesso si è preparato a tale adattamento con la sua concezione. Vengono presentate due scene: una sulla terra, dove vediamo la tempesta spazzare maestosamente da nord a sud per tutta la Palestina; l'altro in cielo, dove i "figli di Dio" - cioè tutte le intelligenze e poteri angelici - stanno come spettatori del grande dramma sottostante, e all'invocazione del poeta alzano il grido, "Gloria", in lode del Grandezza e potenza divina.

La versificazione è perfettamente regolare, ma presenta esempi di quella progressione a gradini che caratterizza il canto di Deborah e i salmi di Gradi. Le due righe conclusive sono evidentemente un'aggiunta liturgica e non facevano parte dell'ode originale. (Vedi nota.)

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