Commento biblico dell'espositore (Nicoll)
Giobbe 42:7-17
XXIX.
EPILOGO
DOPO l'argomento della Voce Divina dalla tempesta l'epilogo è una sorpresa, e molti hanno dubitato che sia in linea con il resto dell'opera. Giobbe aveva bisogno di queste moltitudini di cammelli e pecore per integrare la sua nuova fede e la sua riconciliazione con l'Onnipotente volontà? Non c'è qualcosa di incongruo nella grande concessione del bene temporale, e anche qualcosa di superfluo nel rinnovato onore tra gli uomini? A noi sembra che un uomo buono sarà soddisfatto del favore e della comunione di un Dio amorevole. Tuttavia, supponendo che la conclusione sia una parte della storia su cui è stato fondato il poema, possiamo giustificare lo splendore che esplode su Giobbe dopo il dolore, l'istruzione e la riconciliazione.
Solo la vita può premiare la vita. Quel grande principio fu sgarbatamente messo in ombra nell'antica credenza che Dio protegge i Suoi servi anche fino alla vecchiaia verde. Il poeta del nostro libro ha compreso chiaramente il principio; ispirò i suoi voli più nobili. Fino al momento conclusivo Giobbe ha vissuto fortemente, sia nella regione mondana che in quella morale. Come farà a trovare una vita continua? Il potere dell'autore non poteva oltrepassare i limiti del naturale per promettere una ricompensa.
Non era ancora possibile, nemmeno per un grande pensatore, affermare quella continua comunione con Eloah, quella continua energia intellettuale e spirituale che chiamiamo vita eterna. Ne aveva avuto una visione; aveva visto il giorno del Signore lontano, ma confusamente, per momenti. Portarci dentro una vita era al di là del suo potere. Lo Sheol non ha reso nulla di perfetto; e oltre lo Sceol nessun occhio di profeta aveva mai viaggiato.
Non c'era niente da fare, quindi, che usare la storia così com'era, aggiungendo tocchi simbolici, e mostrare la vita restaurata in sviluppo sulla terra, più potente che mai, più stimata, più riccamente dotata di buone azioni. In un punto il simbolismo è molto significativo. L'ufficio e il potere sacerdotali sono dati a Giobbe; il suo sacrificio e la sua intercessione mediano tra gli amici che lo hanno calunniato ed Eloah che ascolta la preghiera del suo fedele servitore.
L'epilogo, come parabola della ricompensa della fedeltà, ha una verità profonda e duratura. Opportunità più ampie di servizio, stima e affetto più cordiali, il più alto ufficio che l'uomo possa portare, ecco la ricompensa di Giobbe; e con i termini del simbolismo non litigheremo chi ha udito il Signore dire: "Va bene, buon servitore, perché ti sei trovato fedele in pochissimo, abbi autorità su dieci città!"
Un'altra indicazione di scopo non deve essere trascurata. Si può dire che gli sarebbe dovuto bastare il rinnovamento dell'anima di Giobbe, per spendere umilmente quel che restava della vita, in pace con gli uomini, in sottomissione a Dio. Ma il nostro autore era animato dal realismo ebraico, quella sana credenza nella vita come dono di Dio, che lo tenne sempre chiaro da una parte del fatalismo greco, dall'altra dell'ascesi orientale.
Questa forte fede nella vita potrebbe ben condurlo nei dettagli di figli e figlie, nipoti e pronipoti, greggi, tributi e anni d'onore. Né gli importava alla fine se qualcuno diceva che dopo tutto l'Avversario aveva ragione. Doveva mostrare la vita in espansione come ricompensa di fedeltà di Dio. Satana è scomparso da tempo dal dramma; e in ogni caso l'epilogo è soprattutto una parabola.
È, tuttavia, una parabola che coinvolge, come implicano sempre le parabole di nostro Signore, la visione sana dell'esistenza dell'uomo, né quella di Prometeo sulla roccia né quella del cupo anacoreta nella grotta egizia.
Le cose più belle dello scrittore gli arrivavano a caso. Quando ha raggiunto la fine del suo libro non è stato in grado di fare una tragedia e lasciare i suoi lettori rapiti al di sopra del mondo. Nessun pensatore precristiano avrebbe potuto unire i bagliori della verità in una visione della natura immortale e della giovinezza immortale dello spirito. Ma Giobbe deve ritrovare il potere e l'energia; e la fine doveva venire, come avviene, nella sfera del tempo.
Possiamo sopportare di vedere un'anima uscire nuda, sospinta, tormentata; possiamo sopportare di vedere passare dal patibolo o dal fuoco la grande vita buona, perché vediamo Dio incontrarla nel cielo. Ma abbiamo visto Cristo.
Un terzo punto è che per completezza drammatica l'azione doveva portare Giobbe alla piena assoluzione in vista dei suoi amici. Niente di meno soddisferà il senso di giustizia poetica che regge l'intera opera.
Infine, una reminiscenza biografica può aver dato colore all'epilogo. Se, come abbiamo supposto, l'autore fu un tempo uomo di sostanza e potere in Israele e, ridotto in povertà al tempo della conquista assira, si trovò esule in Arabia, il malinconico senso di impotenza nel mondo deve aver toccato tutto il suo pensiero. Forse non poteva aspettarsi un rinnovato potere e posto; forse ha dovuto confessare con rammarico una mancanza di fedeltà nel proprio passato.
Tanto più egli potrebbe inclinarsi a concludere la sua grande opera con una testimonianza del valore e del disegno dei doni terreni di Dio, della vita temporale che Egli assegna all'uomo, della presente disciplina più graziosamente adatta alle nostre attuali forze e tuttavia pieno di preparazione per un'evoluzione superiore, la vita non vista, eterna nei cieli.