capitolo 4

BISOGNO DEL VANGELO: RABBIA DI DIO E PECCATO DELL'UOMO

Romani 1:18

Abbiamo per così dire toccato il cuore dell'Apostolo mentre soppesa la prospettiva della sua visita romana, e sente, quasi in una sensazione, la tenera e potente attrazione, il solenne dovere e la strana sollecitazione a rifuggire dalla liberazione del suo Messaggio. Ora la sua fronte sollevata, appena illuminata dalla radiosa verità della Rettitudine per Fede, è improvvisamente oscurata. Non si vergogna del Vangelo; lo dirà, se necessario, alla presenza stessa di Cesare, e in quella della sua brillante e cinica corte.

Perché c'è un urgente, tremendo bisogno che in questo modo "disprezzi la vergogna". Le stesse condizioni della vita umana che provocano una tendenza istintiva alla reticenza nei confronti del Vangelo, sono fatti di terribile urgenza e pericolo. All'uomo non piace essere esposto a se stesso, ed essere chiamato alla fede e alla resa rivendicate da Cristo. Ma l'uomo, qualunque cosa gli piaccia o non gli piaccia, è un peccatore, esposto agli occhi del Tutto-Puro, e giace indifeso, in mezzo a tutti i suoi sogni di orgoglio, sotto l'ira di Dio. Tale è la logica di questo severo seguito all'affermazione: "Non mi vergogno".

Poiché l'ira di Dio si rivela, dal cielo, su tutta l'empietà e l'ingiustizia degli uomini che nell'ingiustizia trattengono la verità. "L'ira di Dio è rivelata"; Rivelata nelle "sante Scritture", in ogni storia, da ogni Profeta, da ogni Salmista; questo è forse l'oggetto principale del suo pensiero. Ma rivelata anche antecedentemente e simultaneamente in quella coscienza misteriosa, inalienabile, che è parte dell'uomo più dei suoi cinque sensi.

La coscienza vede che c'è un'eterna differenza tra giusto e sbagliato, e sente nell'oscurità la relazione di quella differenza con una legge, un Legislatore e un destino. La coscienza è consapevole di una luce ardente oltre il velo. La rivelazione incontra il suo sguardo malinconico, solleva il velo e afferma il fatto dell'ira di Dio e del suo giudizio in arrivo.

Non evitiamo quella "rivelazione". Non è il Vangelo. Il Vangelo, come abbiamo visto, è di per sé una pura luce calda di vita e di amore. Ma allora non potrà mai essere compreso appieno finché, prima o poi, non avremo visto qualcosa, e creduto qualcosa, della verità dell'ira del Santo. Dalla nostra idea di quella rabbia bandiamo del tutto ogni pensiero di impazienza, di fretta, di arbitrario, di ingiusto, di iniquo al minimo grado.

È l'ira di Colui che mai per un istante può mentire a se stesso; ed Egli è Amore, ed è Luce. Ma Egli è anche, così dice anche la sua Parola, fuoco consumante; Ebrei 10:31 ; Ebrei 12:29 ed è "una cosa spaventosa cadere nelle sue mani.

Da nessuna parte e mai Dio non è Amore, come Creatore e Conservatore delle sue creature. Ma in nessun luogo e mai non è Fuoco, come Avversario giudiziario del male, Antagonista della volontà che sceglie il peccato. Non c'è niente in Dio temere"? "Sì", dice Suo Figlio Luca 12:5 "Io vi dico, temetelo".

Attualmente c'è una tendenza profonda e quasi onnipresente a ignorare la rivelazione dell'ira di Dio. Senza dubbio ci sono stati momenti, e momenti, nella storia del cristianesimo, in cui quella rivelazione è stata messa in sproporzionata importanza e gli uomini si sono allontanati da Cristo (così Lutero ci dice che fece nella sua giovinezza) come da Uno che non era altro che il inesorabile giudice. Lo vedevano abitualmente come si vede nel vasto affresco della Cappella Sistina, una sorta di Giove Tonante, che scaccia per sempre i suoi nemici dalla sua presenza; un Essere da cui, non a chi, l'anima colpevole deve volare.

Ma la reazione a tali pensieri, attualmente su di noi, è giunta davvero all'estremo, finché la tendenza del pulpito, e dell'esposizione, è di dire praticamente che non c'è nulla in Dio da temere; che bastano le parole speranza e amore per neutralizzare i più tremendi mormorii della coscienza, e per cancellare i più chiari avvertimenti dell'amorevole Signore stesso. Eppure quel Signore, mentre meditiamo le Sue parole in tutti e quattro i Vangeli, lungi dal parlare di una "pace" come questa, sembra riservare a Lui Stesso, piuttosto che ai Suoi messaggeri, di pronunciare gli avvertimenti più formidabili. E la prima letteratura che segue il Nuovo Testamento mostra che pochi dei suoi detti erano penetrati più profondamente nell'anima dei suoi discepoli di quelli che parlavano loro delle due vie e dei due fini.

Andiamo da Lui, Amico e Maestro benignissimo, per imparare il vero atteggiamento del pensiero verso di Lui come "il Giudice, Forte e paziente", "ma che non scaccerà in alcun modo i colpevoli" disprezzando i suoi precetti e mettendo dalle Sue minacce. Certamente non ci insegnerà, in questa materia, nessuna lezione di dura e meschina denuncia, né ci incoraggerà a giudicare le anime e le menti dei nostri fratelli.

Ma Egli ci insegnerà ad avere visioni profonde e terribili per noi stessi sia dell'inquinamento che della colpa del peccato. Ci costringerà a portare quelle opinioni attraverso la nostra teologia personale e anche la nostra antropologia personale. Egli renderà sia un dovere che una possibilità per noi, nella giusta misura, nel modo giusto, con tenerezza, umiltà, governati dalla Sua Parola, di far conoscere agli altri quali sono le nostre convinzioni sulle Vie e sui Fini.

E così, così come in altro modo, farà sì che il suo Vangelo non sia per noi un mero lusso o un ornamento del pensiero e della vita, quasi fosse un decoroso indorare sulla mondanità essenziale e sui modi di sé. Lo dispiegherà come rifugio dell'anima e sua casa. Da se stesso giudice ci trarrà in volo benedetto a se stesso come propiziazione e pace. "Dalla tua ira e dalla condanna eterna, buon Dio, liberaci te stesso".

Questa ira, santa, senza passione, ma terribilmente personale, "è rivelata, dal cielo". Vale a dire, si rivela come proveniente dal cielo, quando il giusto Giudice "si manifesterà dal cielo, facendo vendetta". 2 Tessalonicesi 1:7 In quel puro mondo di sopra Egli siede la cui ira è. Da quel cielo immacolato della Sua presenza cadranno i suoi lampi bianchi, "su ogni empietà e ingiustizia degli uomini", su ogni sorta di violazione della coscienza, sia fatta contro Dio che contro l'uomo; sull'"empietà", che bestemmia, nega o ignora il Creatore; sull'"ingiustizia", ​​che strappa le pretese sia del Creatore che della creatura.

Terribili opposti ai "due grandi comandamenti della Legge"! La Legge deve essere finalmente confermata su di loro. La coscienza deve essere finalmente verificata eternamente, contro tutte le miserabili soppressioni di essa che l'uomo abbia mai provato.

Per gli uomini in questione "mantenere la verità nell'ingiustizia". La resa "tenere premuto" è certificata sia dall'etimo che dal contesto; l'unico altro rendering possibile, "hold fast", è negativo dalla connessione. Il pensiero che ci viene dato è che l'uomo, caduto dall'armonia con Dio in cui è stata fatta la virilità, ma conservando ancora la virilità, e quindi la coscienza, non è mai naturalmente ignorante della differenza tra giusto e sbagliato, mai naturalmente, innocentemente, inconsapevole di essere responsabile.

D'altra parte non è mai pienamente disposto, da solo, a fare tutto ciò che sa di giusto, tutto ciò che sa di dover, tutta la richiesta della giusta legge al di sopra di lui. "Nell'ingiustizia", ​​in una vita che nella migliore delle ipotesi non è interamente e cordialmente con la volontà di Dio, "si tiene ferma la verità", mette a tacere il fatto ossessionante che c'è una pretesa che non soddisferà, una volontà che dovrebbe amare , ma a cui preferisce il suo. La maestà del diritto eterno, sempre intimando la maestà di un eterno Giusto, si infila sotto la sua coscienza, o in un angolo di essa, e la tiene lì, affinché possa seguire la sua strada.

Più o meno, lotta con lui per il suo posto. E i suoi sforzi, anche a metà compresi, possono, e spesso lo fanno, esercitare una forza deterrente sulle energie della sua volontà personale. Ma non lo sloggiano; preferirebbe fare a modo suo. Con una forza a volte deliberata, a volte impulsiva, a volte abituale, "tiene premuto" lo sgradito monitor.

Profonda è la responsabilità morale incorsa in tale repressione. Perché l'uomo ha sempre, per lo stato stesso del caso, dentro di lui e intorno a lui, l'evidenza di un giusto Potere personale "con chi ha a che fare". Perché ciò che è conosciuto in Dio è manifesto in loro; poiché Dio l'ha manifestato (o meglio, forse, nel nostro idioma, l'ha manifestato) a loro. "Ciò che è noto"; cioè, in pratica, "ciò che è conoscibile, ciò che può essere conosciuto.

"C'è ciò che riguarda l'Eterno che in verità non è né può essere conosciuto, con la conoscenza della comprensione mentale. "Chi può scoprire l'Onnipotente fino alla perfezione?" Divinità, e sanno che non la conoscono nelle sue profondità insondabili ma radiose, né possono esplorare la sua distesa che non ha sponde, riposano davanti al mistero assoluto con un riposo così semplice (se possibile più semplice) come quello con cui contemplano il l'evento più familiare e comprensibile. Ma questo non è conoscerLo. Lascia l'uomo altrettanto libero di essere sicuro che Egli sia, di essere altrettanto certo che Egli è Personale e Santo, come l'uomo è certo della propria coscienza, e coscienza.

Che c'è la Personalità dietro i fenomeni, e che questa grande Personalità è giusta, san Paolo qui afferma di essere "manifesto", svelato, visibile, "negli uomini". È un fatto presente, per quanto in parte compreso, nella coscienza umana. E inoltre, questa coscienza è essa stessa parte del fatto; anzi è quella parte senza la quale tutte le altre sarebbero come niente. All'uomo senza coscienza - veramente, naturalmente, innocentemente senza coscienza - e senza idee di causalità, l'intera maestà dell'Universo potrebbe essere spiegata con una pienezza al di là di ogni nostra esperienza presente; ma non direbbe assolutamente nulla né della Personalità né del Giudizio.

È attraverso il mondo interiore che siamo in grado di comprendere il mondo esterno in misura minima. Ma avendo, naturalmente e inalienabile, il mondo della personalità e della coscienza dentro di noi, siamo esseri ai quali Dio può manifestare, e ha manifestato il conoscibile di Sé, nel suo universo.

Poiché le Sue cose invisibili, sin dalla creazione dell'universo, sono piene alla vista (dell'uomo), presentate alla mente (dell'uomo) dalle Sue cose fatte - la Sua potenza eterna e la Sua somiglianza con Dio - in modo da renderle imperdonabili. Poiché il mondo ordinato era, e poiché l'uomo era, come suo osservatore e anche come sua parte integrante, è stata presente allo spirito dell'uomo - supposto fedele alla sua stessa creazione - una testimonianza adeguata intorno a lui, presa insieme a quella dentro di lui, per evidenziare la realtà di una Volontà suprema e persistente, intendendo ordine, e così intimando la propria corrispondenza alla coscienza, ed esprimendosi in "cose ​​fatte" di tale multiforme gloria e meraviglia da intimare la maestà e la giustizia del Creatore.

Che cos'è Quello, che cos'è Colui a cui testimoniano gli splendori del giorno e della notte, le meraviglie della foresta e del mare? Egli non è solo Giudice giusto, ma Re eterno. Non è solo incaricato della mia guida; Ha diritti illimitati su di me. Mi sbaglio del tutto se non sono in armonia sottomessa con Lui; se non mi arrendo e adoro.

Così è stato, secondo san Paolo, «fin dalla creazione dell'universo» (e dell'uomo in esso). E tale ovunque è il teismo della Scrittura. Essa sostiene, o meglio afferma con certezza, che la conoscenza di Dio da parte dell'uomo è iniziata con il suo essere uomo. Vedere il Creatore nelle sue opere non è, secondo le Sacre Scritture, solo il lento e difficile esito di una lunga evoluzione che ha condotto attraverso forme di pensiero molto inferiori, il feticcio, il potere della natura, il dio tribale, il dio nazionale, all'idea di un Supremo.

La Scrittura presenta l'uomo come fatto ad immagine del Supremo, e capace fin dall'inizio di una vera, seppure flebile, apprensione di Lui. Ci assicura che le visioni inferiori e distorte dell'uomo della natura e del potere personale dietro di essa sono degenerazioni, perversioni, problemi di una misteriosa dislocazione primordiale dell'uomo dalla sua armonia con Dio. Il credente nelle Sacre Scritture, nel senso in cui nostro Signore e gli Apostoli credettero in esse, riceverà questa visione della storia primordiale del teismo come un vero resoconto del racconto di Dio su di esso.

Ricordando che si tratta di un momento altrimenti sconosciuto della storia spirituale umana, non sarà disturbato da presunte prove contro di esso provenienti da più a valle. Nel frattempo noterà che tra i più eminenti studiosi di Natura del nostro tempo ci sono quelli che affermano la giustezza di un tale atteggiamento. Non è con leggerezza che il Duca di Argyll scrive parole come queste:-

"Dubito (a dire la verità, non credo) che mai riusciremo a conoscere dalla scienza qualcosa di più di quanto sappiamo ora sull'origine dell'uomo. Credo che dovremo sempre basarci su quel magnifico e sublime schema che è stato datoci dal grande Profeta dei Giudei".

Quindi l'uomo, essendo ciò che è e vedendo ciò che vede, è "senza scusa": perché, conoscendo Dio, non lo glorificavano come Dio, né lo ringraziavano, ma si dimostravano vani nei loro modi di pensare, e il loro cuore insensato era oscurato. Dichiarandosi saggi, diventarono stolti e trasmutarono la gloria del Dio immortale in una parvenza di somiglianza con l'uomo mortale, e di cose alate, quadrupede e rettili.

L'uomo posto da Dio nel suo universo, e fatto se stesso a immagine di Dio, naturalmente e inevitabilmente "conobbe Dio". Non necessariamente in quel senso interiore di armonia e unione spirituale che è Giovanni 17:3 la vita eterna; ma nel senso di una percezione del suo essere e del suo carattere adeguati, al minimo, a fare una pretesa morale.

Ma in qualche modo - un qualcosa che ha a che fare con una rivolta della volontà dell'uomo da Dio a se stesso - quell'affermazione era, ed è, disprezzata. Da quell'antipatia è scaturita, nella storia spirituale dell'uomo, una riservatezza verso Dio, una tendenza a mettere in discussione il Suo scopo, il Suo carattere, la Sua esistenza; o altrimenti, degradare la concezione della Personalità dietro i fenomeni in forme da cui è scaturito il multiforme mostro dell'idolatria, come se i fenomeni fossero dovuti a personalità non migliori e non più grandi di quelle che potrebbero essere immaginate dall'uomo o dalla bestia, cose di limite e di passione; al loro massimo terribile, ma non santo; non intimo; non uno.

L'uomo ha speso per questi "modi di pensare" indegni una grande quantità di ragionamento debole e ottuso e di immaginazione imbecille, ma anche alcune delle più rare e splendide delle ricchezze della sua mente, fatte a immagine di Dio. Ma tutto questo pensare, perché condizionato da un atteggiamento sbagliato del suo essere nel suo insieme, ha avuto problemi "futili", ed è stato nel vero senso della parola "non intelligente", non riuscendo a vedere le inferenze nel modo giusto e nel suo insieme. È stata una lotta "al buio"; sì, una discesa dalla luce nella "follia" morale e mentale.

Non era così, non è così immobile? Se l'uomo è davvero fatto a immagine del Creatore vivente, una personalità morale, e posto nel mezzo della "miriade di mondi, la Sua ombra", allora qualunque processo di pensiero porti l'uomo lontano da Lui ha da qualche parte in sé un errore indicibile, e imperdonabile. Deve significare che qualcosa in lui che dovrebbe essere sveglio è assopito; o, peggio ancora, che qualcosa in lui che dovrebbe essere in perfetta sintonia, come il Creatore l'ha temperata, è tutto slegato; qualcosa che dovrebbe essere nobilmente libero di amare e di adorare viene represso", trattenuto.

"Allora l'uomo pensa pienamente bene solo quando è giusto. Allora è giusto solo quando, fatto da e per l'Eterno Santo, riposa volentieri in Lui e vive per Lui. "Il timore del Signore è", in il fatto più rigoroso, "principio della sapienza", poiché è quell'atteggiamento dell'uomo senza il quale la creatura non può "rispondere all'idea" del Creatore, e quindi non può veramente seguire la legge del proprio essere.

"Colui che si gloria, si glori di questo, che comprende e conosce Geremia 9:24 che necessariamente ed eternamente trascende la nostra conoscenza e comprensione, ma può essere conosciuto, può essere toccato, abbracciato, adorato, come personale, eterno, onnipotente, santo Amore."

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