Con una gioia profonda e pacifica Paolo scrive la sua Lettera ai Filippesi, da circostanze che tenderebbero di per sé piuttosto alla miseria e allo scoraggiamento. Imprigionato a Roma, si considerava prigioniero del Signore, posto lì dalla sapienza divina per l'adempimento della volontà e dell'opera di Dio. Quindi, la sua gioia viene dalla fonte più alta: la sua solitudine e schiavitù, ma danno occasione alla più costante, reale comunione della presenza di Dio, e il suo calice trabocca.
Anche i Filippesi, all'inizio, lo avevano conosciuto come perseguitato per amore di Cristo, e quanto fosse davvero un conforto per la sua anima il fatto che questo non facesse altro che aumentare il loro attaccamento a lui, piuttosto che spaventarli. Questo attaccamento era stato incrollabile da quel momento, fino ad oggi, essendo trascorsi undici anni da quando li aveva visitati per la prima volta con il Vangelo. Questo possiamo facilmente capire aumenterebbe la gioia con cui scrive loro.
L'epistola è chiaramente pastorale, rinfrescante, incoraggiante, piuttosto che correggere o esporre le dottrine del cristianesimo. L'argomento qui è più propriamente l'esperienza coerente con la dottrina, non certo l'esperienza di ogni cristiano, ma l'esperienza normalmente generata dalla conoscenza di Cristo. Paolo stesso appare come l'esempio di questa esperienza; e chi può non vedere che questo ha lo scopo di incitare decisamente le nostre anime a seguire il suo esempio?